L’UOMO DISINCANTATO – Prove infantili di disincanto.

Questa leggerezza non mancava comunque di un certo dinamismo giacché le singole parti di quell’unico insieme che era la mia esperienza della vita, e in cui il passato, il presente e il futuro, lungi dal trovare una loro stabile diversificazione, procedevano invece come frattali sospinti dal moto gommoso di un flusso algoritmico al quale era impossibile e soprattutto inutile dal punto di vista sentimentale attribuire un verso, mi trasmettevano la sensazione di galleggiare come se fossero elettrizzate staticamente, sottoposte dal tempo a tensioni e allentamenti, dilatazioni e spasmi, irrigidimenti e contratture che, dispiegandosi con un’indomita evanescenza, provocavano di volta in volta tra di esse urti violenti o semplici rimbalzi giocosi, scivolamenti così ben lubrificati da ricordare le esitazioni e le ripartenze di certi organismi unicellulari nell’acqua stagnante oppure delle scintillanti frizioni pirotecniche. L’energia del disincanto, lungi dal negare i dati tradizionali dell’esperienza e dei sentimenti, conferiva alla mia mente, intanto che l’alimentava, la facoltà spontanea di ammorbidire la rigida consapevolezza insita in quei medesimi dati sino a fare in modo che essi acconsentissero all’evolversi di pensieri divergenti, di emozioni complesse, di analisi dalla bellezza aguzza e sintesi dalla moralità sorprendente; essa in sostanza nutriva qualcosa di talmente creativo rispetto al punto di vista dell’umanesimo ordinario da sembrare la conseguenza di una volontà deliberata se non addirittura di un disturbo della psiche. In realtà l’organizzazione critica della mia idea di me stesso come vivente e in generale quindi della vita umana, sospinta appunto dall’energia del disincanto, era diventata più che altro un destino sentimentale, un’indole riconosciuta dall’istinto della mia intelligenza quale propria direzione spirituale, e tendeva ad attribuire naturalmente un valore razionale decisivo a conclusioni eccentriche e radicali che in qualsiasi altro contesto sarebbero state bollate come improbabili e di conseguenza messe da parte. Grazie al disincanto, l’organizzazione critica della mia vita interiore riconosceva tutti gli sparsi sintomi di verità dotati di una tangibile autonomia e, invece di lasciarli sopravvivere quotidianamente come avrebbero voluto le accattivanti sirene sociali, li metteva insieme, uno sull’altro, fino a farli coincidere in una nuova consapevolezza divergente. La verità faceva evolvere in me complessità disincantate mentre e perché mi allontanava dalle consuetudini memorabili dell’empatia, dalla fin troppo comune condivisione dei luoghi, dai tipici momenti di gloria di un’infinità boriosa di uomini e donne cannone sparati ogni giorno in pompa magna verso le stelle, sempre senza alcuna speranza di lambirne una per davvero ma comunque di fronte al loro pubblico, convinto, partecipe e pagante.
Davanti a questa folla di individui – che per certi versi assimilo ancora all’immagine spumosa ed effervescente della bassa marea – incantati dall’assuefazione al proprio esserci e alla normalità standardizzata – culturale e sociale – di spiccioli dati di fatto, il tempo all’inizio si dilatava, e in modo sempre identico, come uno splendido paesaggio privo di limiti, rivelato dalla luce di un mattino perpetuo ed estremamente vivido di promesse, fino a quando, da un giorno all’altro, ecco che, per un improvviso desiderio di analogia con la realtà, quel medesimo panorama si restringeva in un’aiuola, che poteva presentarsi più o meno riuscita e gradevole a seconda dei casi ma senza dubbio disegnata per tutti nel rispetto dei canoni del giardinaggio universale. E la cosa davvero incredibile era che quasi nessuno di loro, ovunque e in qualsiasi condizione fosse nato anche nei secoli dei secoli a venire, avrebbe mai trovato nulla da contestare a questa improvvisa stenosi della dimensione emotiva dell’esistenza e al suo fatale restringersi fino a raggiungere quella più ragionevole e soprattutto ben transennata (come la scena di un crimine) della propria vita; perché è appunto sulla naturalezza e sull’abilità mostrate dai singoli nell’aderire a questo ridimensionamento coatto – simile all’impressione spiazzante che, bene o male, si ha sempre quando infine si arriva a vedere dal vivo qualcosa o qualcuno che fino a quel momento si era soltanto immaginato – che si gioca in ogni tempo e una volta per tutte, proprio come se si stesse pattinando sul ghiaccio stellare di un’orbita che, giro dopo giro, da ellittica diventa rotonda, sprofondando entro i confini sempre più gretti e premeditati del baratro della socievolezza, il senso della differenza che separa un’integrazione di successo da un’emarginazione fallimentare, cioè la chance di mettere in equilibrio il proprio destino su quel madornale punto intermedio posto tra l’infinita evenienza delle possibilità e il loro migliore fallimento quotidiano. In un certo senso l’umanità era già allora – e ancora rimane – per me un formicolio scenografico di lillipuziani leibniziani che adottano se stessi alla rovescia, cioè non da genitori ma da figli, adeguandosi al loro stato come al proprio destino e ai loro meriti in quanto legittimo motivo d’orgoglio personale; e così, potendosi dire nella media empiricamente soddisfatti, sono in grado anche di prendere congedo dalla giovinezza sino a considerarla giorno dopo giorno soltanto attraverso i filtri retorici e le velature mnemoniche della nostalgia e non invece – mai più – come il tempo in cui hanno probabilisticamente sfiorato un numero imprecisabile di altri destini eseguendo elettrizzanti piroette tra le forze centrifughe dirompenti della casualità.

(estratto dal primo volume)

©Andrea Rossetti

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