La Lady era nata in Cornovaglia, precisamente a Fowey, e aveva trascorso gli anni della sua prima giovinezza circondata dalla migliore borghesia londinese che sceglieva quella stazione balneare per trascorrere la villeggiatura. Lei, essendo di bell’aspetto e appartenendo a una delle migliori famiglie del luogo, si era ritrovata giocosamente introdotta sin da bambina in quel clima perenne da comitiva festosa, tessuto con naturalezza su una cordialità fatta di reciproci inviti, di madri amiche tra di loro nei limiti perentori imposti da un’amabile discrezione di classe e di padri solidi ed eleganti che era quasi impossibile sorprendere senza una canna da pesca o una stecca da biliardo o almeno con un sigaro pregiato tra le labbra o tra le dita.
A giudicare dalle istantanee Polaroid che mostrava a Peter a centinaia nelle ore più intense e indefinibili dei pomeriggi che trascorrevano insieme – quando gli consentiva di vederla assorta e quasi mitizzata dalla trasparenza assoluta della luce come una statuina di porcellana di Capodimonte raffigurante Arianna colta nel momento della massima incertezza, ancora malinconica per l’abbandono di Teseo ma anche già consolata in parte dall’amore di Dioniso – a quei tempi lei possedeva la bellezza calma e distante di una vera sognatrice, che i tratti definitivi e i colori opachi e raggrumati delle Polaroid solidificavano alla perfezione in un ritratto quasi mentale.
Nelle istantanee non era quasi mai inquadrata in primo piano ma sempre dietro o accanto a qualcosa o a qualcuno oppure lasciata libera di abitare a modo suo il paesaggio sullo sfondo; in alcune aveva lo splendore pacato della vetta lavica e nera di un vulcano quand’è appena spolverata da uno strato di neve soffice, mentre in altre mostrava la stessa morbidezza traballante di quel latte alla portoghese che quand’era bambino la prozia di Peter gli preparava solo per dare un po’ di sostanza materiale al desiderio vago e tutto suo di renderlo felice. In quelle foto i suoi piccoli piedi e i suoi talloni sbandati scendevano a patti con la terra che calpestavano lungo delle credibili ipotesi di itinerario, e andavano di fiore in paesaggio e di bacio o abbraccio in stagione, mentre il suo sguardo nascondeva la commozione dietro la malinconia e il suo sorriso trasformava la timidezza in una bella posa inconsapevole. In ogni scatto pareva che lei stesse sempre riprendendo fiato, lasciando nel frattempo il fotografo di turno libero di masticare la distrazione di tutt’altri pensieri come si fa alla fine delle feste coi tramezzini avanzati, già un po’ collosi e sparsi qua e là sulle fiamminghe d’argento e sopra i tavoli da buffet ormai disfatti, ansiosa solo di essere catapultata in un altro tempo ancora tutto di là da venire, nel quale avrebbe potuto celebrare senza più vincoli e insieme a un uomo forse davvero innamorato di lei la fortuna burlesca di riuscire ancora a riconoscersi in quelle immagini tanto elementari quanto assolute, divincolandosi anche e per pura voluttà di seduzione prima da se stessa e poi dal mondo intero, libera finalmente di galleggiare ovunque come un frammento breve e magico di quell’infanzia che non era stata in grado di trattenere e che comunque non disperava un giorno di poter ritrovare.
(estratto dal secondo volume)
©Andrea Rossetti