Il bambino pigro di una volta si era quindi trasformato in un ragazzino distratto e questo mi aveva spinto a elaborare, in verità più come una sommaria scappatoia che come un vero e proprio chiarimento, il concetto, o dovrei meglio dire lo stato d’animo, del “lascialo andare, lascialo passare”. Qualsiasi cosa io facessi o pensassi oppure anche solo meditassi di fare o di pensare, infatti, a un certo punto cominciava inevitabilmente ad accasciarsi da sola, quasi piegata dal progressivo incremento del suo stesso peso, e questa circostanza reclamava da parte mia, senza che mi si palesasse mai un barlume di soluzione di continuità, un costante sforzo aggiuntivo di impegno e di concentrazione che d’altro canto la pigrizia, fattasi ormai da parte, almeno non mi vietava più. Era per alcuni versi un’esperienza non molto lontana da ciò che, nella letteratura mistica cristiana, San Giovanni della Croce definisce “notte oscura dell’anima”, ovvero il tempo del dubbio e dell’assenza di Dio, del raggelarsi di una fede senza più slanci e partecipazione, e infine della preghiera meccanica, inaridita dal senso del dovere e dalla vuota ripetizione di formule imparate a memoria alle quali la voce attribuisce una sonorità impersonale, come quella dell’eco quando rimbalza tra le valli. Allora mi immedesimavo completamente nello sguardo del viaggiatore che all’alba, già arrossato dal fumo acre della prima sigaretta quotidiana, cerchi annaspando da dietro i vetri argentati di vapore della finestra di una camera d’albergo una via d’uscita che lo porti al di là della visione impenetrabile della nebbia, verso l’esistenza oggettiva del paesaggio; e quando poi il mattino, nel suo sempre più intenso e limpido levarsi, comincia finalmente a filtrare attraverso l’assoluta e compatta opacità di quel velo, prima diradandolo appena per un timido auspicio e poi, grazie alla luce filtrante e al calore, spegnendone i vapori residui lungo i bordi sempre più accentuati di ogni singolo particolare del panorama, si abbandoni al succedersi delle apparizioni – che, pezzo dopo pezzo, ricompongono il mondo – per il semplice fatto di poterle vedere, quindi già pienamente appagato dal solo esercizio di sé come pura funzione sensoriale, stordito, dopo tutta l’uniforme pesantezza che gli è stata imposta dalla nebbia, dal dono dell’assoluta libertà di non dover patire un oggetto e di non essere obbligato a motivare uno scopo.
Ecco, era appunto per qualcosa di molto simile che io, ormai adolescente, non più a causa della pigrizia ma soltanto per distrazione, giunto al culmine di un qualsiasi impegno fisico o intellettuale, quasi mi raggomitolavo nella profondità dell’attitudine sentimentale del mio “lascialo andare, lascialo passare”, appena qualche istante prima di distendermi ancora una volta, compiendo un movimento interiore durante il quale, recuperando spazi di libertà, il mio spirito si sbloccava, come succede a un arto anchilosato, pronto a perdersi in altre, tempestive intenzioni che erano pure – in misura maggiore o minore a seconda dei casi – conseguenze di tutte quelle che le avevano precedute. A differenza della pigrizia, infatti, la distrazione non aveva alcun legame con la svogliatezza e mancava di rilievo e di conseguenze morali. Era più che altro un genere a sé stante di fragilità – e in parte anche un disordine – intellettuale, direttamente connesso con l’assenza di un metodo nelle sproporzionate ambizioni della mia mente, incapace di riconoscere come dannosi, e quindi di tenere a freno, gli ingombranti condizionamenti emotivi dei miei pensieri, che forse avrei dovuto educare a circoscrivere i propri oggetti in vista del raggiungimento graduale di risultati sempre più rigorosi invece di lasciarli liberi di concedere un privilegio istintivo alla sovrabbondanza delle suggestioni.
Anziché sottrarre alla mia vita la voglia di agire seguendo l’esempio consolidato della pigrizia, la distrazione – all’ombra di quel disincanto che si era appena ritirato dalla realtà fisica, abbandonandola ai sussulti degli appetiti giovanili e alle burrasche ormonali, per poter maturare spiritualmente di pari passo con me – mi inondava piuttosto di idee e ragionamenti finché questi, pur di riuscire a coesistere, si confondevano e si sovrapponevano in un gioco vaporoso di leggerezze sempre volubili, come se un immaginario costume da Arlecchino si scomponesse a mezz’aria in tanti rombi di fumo colorato per poi ricombinarsi in una girandola di contaminazioni cromatiche tanto vere quanto indefinibili e prive di consistenza. E mentre la mia fin troppo delicata indole contemplativa era distratta da quell’esperimento adolescenziale che, gonfiandola di gloria dilettantesca, la caricava dell’insostenibile responsabilità di un ordine tutto nuovo, ispirato, tra eccessi di passione e inconcludenza, alla natura dell’arte e alle regole dei giochi, e fatto specialmente di cose celesti come inseguire, afferrare e liberare una neonata specie di pensieri, tanto più emozionanti e ambiziosi rispetto ai precedenti quanto pure meno inclini in linea di principio a lasciarsi coinvolgere da delicati processi di maturazione, il mio corpo prendeva possesso giorno dopo giorno della pienezza di quella vitalità che di lì a poco mi avrebbe fatto incontrare e riconoscere immediatamente l’unico amore della mia vita destinato a conservarsi nel tempo: il tennis.
(estratto dal primo volume)
©Andrea Rossetti