L’UOMO DISINCANTATO – Peter accetta finalmente di fare visita a Lord Finnegan (2)

L’ossessione per il tennis, a prescindere dalla forma pratica o teorica in cui di volta in volta si manifestava, occupava quindi per intero, insieme al suo legame con la Lady, le giornate di Peter, al punto che ogni impegno di altra natura gli faceva lo stesso effetto di una distrazione e lo disturbava come un imprevisto fastidioso. Quando alla fine – e senza avere comunque nulla da riferirgli – si decise a sbrigare una buona volta la faccenda dell’incontro con Lord Finnegan, questi lo accolse fuori dal suo studio, senza dubbio per rappresentargli concretamente ma con diplomazia, evitando cioè ogni pericoloso e inopportuno sperpero di parole, il proprio rincrescimento per quella cocciuta latitanza. Si fece trovare già seduto su una delle poltrone dell’enorme salone che aveva adibito ad anticamera e, dopo aver onorato gli obblighi della cortesia con uno scostante saluto appena abbozzato, invitò Peter a sedere sulla poltrona che era di fronte alla sua facendogli un breve cenno con la mano.
“Sa una cosa?” esordì col lieve sussiego di una noncuranza artefatta. “Pare che nascendo io abbia sbadigliato. Gli altri, quelli che io chiamo i neonati in fin di morte, sfornati già bell’e pronti per l’omologazione dell’assai discutibile democrazia in cui viviamo, che li aspetta tutti a gambe aperte, tra l’anagrafe civile e il battesimo religioso, loro no, loro piangono, strepitano quasi all’unisono. Io invece sbadigliavo sbalordito, presumo anche irritato dal gran baccano che si faceva intorno a me e che si andava ad aggiungere al dramma d’essere venuto al mondo. Fu quindi sbadigliando che presi confidenza con l’aria. Le dico questo per darle un’idea di che pasta io sia fatto. In realtà però le volevo parlare delle preoccupazioni delle quali Sua Altezza Reale il Duca di Kent mi ha reso partecipe data l’inammissibile mancanza di concretezza, e di iniziative delineate e definite, fin qui dimostrata dal nostro comitato…”
La citazione del titolo altisonante, contrariamente alle aspettative di Lord Finnegan, non distolse affatto Peter dal suo stato di distrazione e di disinteresse. Forte dell’effetto sorpresa, egli decise quindi di sferrare il suo attacco addormentando il dialogo con un silenzio tanto attento quanto ambiguo, ispirandosi a un rovescio in back di Ilie Năstase.
L’altro, però, rintuzzò l’affondo riprendendo a parlare sempre più eccitato e come se nulla fosse: “Forse non ha compreso il senso più profondo del mio appello nei suoi confronti e della mia sollecitudine in questa circostanza. Sappia che io sono infinitamente grato a mia madre proprio per avermi messo al mondo così come sono: già svuotato! Io non chiedo in me di me che vuoto perché in ciò è la sublime pornografia di tutto l’amore possibile su questa terra, il desiderio appeso alle delizie dell’infinito irreligioso. In matematica l’infinito è una specie di 8 adagiato, dico bene? Beh, vuole metterlo con la banalità circense di uno strascicato e penosamente allusivo 69 (e qui, sebbene con fare svagato, si lasciò scappare anche un breve sorriso malizioso)? Ci passa tutta la differenza, anzi l’abisso, che c’è tra l’algebra e una lotteria, che diamine! Vede, le vicende legate a questo nostro comitato (a Peter non sfuggì che soppesasse quel “nostro” tra i denti e la lingua lasciandolo schioccare avvolto dalla saliva di uno strano compiacimento intransigente), al glorioso centenario che abbiamo l’onore di celebrare, vecchio mio, mi fanno davvero un certo effetto. Mi fanno ripensare alla mia vita, come in una specie di ricapitolazione memoriale, in cerca di chiarezza sui sentieri che, pur governati da una logica stocastica, mi hanno infine condotto all’unico luogo possibile, cioè questo luogo, che è evidentemente il mio. Mi piace cercare di capire quanto di tutto ciò che ho fatto e di tutte le persone che ho incontrato sia qui oggi, e come. Un bell’esercizio intorno all’intelligenza del caso, non le pare? Più che poetico nella sua nudità razionale! Perché solo se si accetta, e si scrive e riscrive ossessivamente, come se si trattasse di un poema, che il mattino ha per davvero l’oro in bocca, si può sperare che il resto del giorno abbia almeno una sua luminosità, un suo prezioso, misterioso, e tuttavia non del tutto arcano, splendore.
Ciò che scrivono i poeti, cioè quelli che, creduti, si ritengono tali, invece non è mai la poesia. Loro scrivono incisi per poesie mancanti, poesie che se ne restano lì intorno a farsi eternamente provocare proprio dall’esistenza fanciullesca di quei loro incisi. Quanto più infantile è l’inciso ed esteso il suo successo, però, tanto più energica e rabbiosa sarà la reazione uguale e contraria della poesia, richiamata a forza da quello scempio fuori dalla spelonca del suo mutismo, al di qua della caverna platonica del suo sacrosanto riposo. Ed è proprio questo furore, indipendentemente dagli accenti che prende di volta in volta, a radere al suolo, mediante il più silenzioso e terribile degli assedi, ogni malcapitato lettore che gli capiti a tiro, per costruire sulle sue macerie, a suo capriccio, oggi una nuova Gerusalemme, domani un’altra Babilonia, o viceversa.
Siamo noi la poesia di noi stessi e per questo abbiamo in dote un luogo del quale siamo moralmente responsabili di fronte alla storia, grande o piccola che sia. Quindi, per favore, si dia da fare…”

(estratto dal secondo volume)

©Andrea Rossetti

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