L’UOMO DISINCANTATO – Orfano affidato ma non adottato (3)

“Ma torniamo a noi – mi aveva detto cambiando per l’ennesima volta l’intensità della voce e riportando velocemente a sé la mano al termine della carezza mentre io la guardavo ritrarsi con la stessa rassegnazione malinconica di un marinaio che, dopo aver preso il largo con la sua nave, veda dileguarsi il tetto della sua casa prima nel crogiolo di una macchia di colore appena più familiare delle altre e poi come un punto qualsiasi spillato alla meno peggio sul filo dell’orizzonte – e andiamo con ordine. La mia famiglia d’origine è portoghese, di Lisbona, ma questo penso tu lo sappia, e anch’io sono nata lì e ci ho vissuto più o meno in santa pace fino all’adolescenza inoltrata, nonostante il fatto che mio padre fosse in aperto contrasto col governo e che questo di certo non ci facilitasse le cose. A un certo punto però ho deciso di andarmene per provare a rinascere altrove. Per ora non voglio spiegarti perché, dato che è a causa di un dolore smisurato che mi sta ancora tutto dentro, sebbene sia ormai devitalizzato come un dente guasto al quale è stata asportata la polpa, e d’altro canto io odio fare la vittima, non tanto per pudore quanto per il fatto che una vittima si rappresenta a posteriori come tale agli occhi degli altri solo per trarre vantaggio dalla propria condizione e ciò significa che, in fondo, nutre un sentimento ambiguo nei confronti della sua disgrazia, un affetto opportunistico per il quale secondo me meriterebbe addirittura un supplemento di sciagura. Fatto sta che, devi credermi, dopo la mia partenza dal Portogallo avrei tanto voluto vivere tranquilla, in disparte, infischiandomene davvero di tutto, ma, avendo ceduto alla tentazione della faciloneria, alla stregua di un medico che creda di poter curare un tumore con le sole pillole senza ricorrere all’asportazione chirurgica, non ho potuto. Dimenticare le mie radici: pensavo potesse funzionare. Ma le radici che non estirpi alla fine generano di nuovo la stessa pianta e limitarsi a scappare non serve. È stato allora che l’odio è tornato a rendermi coraggiosa e a salvarmi, com’era già successo la prima volta, quella di cui per adesso non voglio parlarti; un odio evocato dal caso, come sempre, come capita pure all’amore, messo in moto dalle circostanze, ma che alla fine mi ha resa capace di recidere di netto ciò che fino a quel momento, forse perché ancora troppo ammaccata e indolenzita, avevo solamente sperato di riuscire a scordare.
Avevo scelto di vivere in Inghilterra e, dovendomi arrangiare, conducevo un’esistenza nomade e piuttosto disordinata, indifferente a qualsiasi regola che non venisse – come a volte si dice – tutta dalla farina del mio sacco. Ciò che al mattino consideravo assolutamente buono e giusto finiva già per annoiarmi verso sera, a immagine e somiglianza di una bellissima ed effimera farfalla, rapito da una specie di gorgo di stanchezza sino all’apice del suo indispensabile disconoscimento, com’è giusto che sia di ogni buona regola. Vivevo una vita che la maggior parte delle persone giudicherebbe immorale, almeno pubblicamente, perché in privato, e in futuro avrai modo di scoprirlo, la nostra società è una madre molto più tollerante e comprensiva, soprattutto quando si tratta dei suoi figli prediletti. D’altra parte io non credo neanche nell’innocenza: nessuno di noi è senza colpe, abbiamo soltanto la coscienza anchilosata dai luoghi comuni, dalle assoluzioni della religione e da un’ipocrisia che col tempo, facendoci l’abitudine, si pratica addirittura in buona fede.
Sto dicendo qualcosa che ti turba? – in effetti ero diventato rosso per una vampa improvvisa e incontenibile, quasi fossi stato scoperto, come se in quelle parole lei stesse alludendo con perfetta malizia alla mia abitudine adolescenziale di masturbarmi più volte al giorno – I miei ragionamenti non meritano tanto, dai! Per di più sarebbe un turbamento motivato da suggestioni che nulla hanno a che fare con una vera moralità. Se tu fossi realmente onesto dovresti ammettere che ora temi soltanto per te stesso, come poi capita sempre quando i discorsi di qualcuno ci mettono di fronte all’esistenza impassibile dei nostri segreti. Tu pensi di intuire nelle mie parole chissà quale minaccioso sottinteso o un’inaspettata visibilità per quelle che consideri le tue colpe, ma, credimi, anche se io le conoscessi per davvero, le amerei, perché disprezzo solo la lucidità della pura cattiveria, non l’incoerenza mite dei peccati.”
A quel punto mi aveva letteralmente trascinato a sé, stringendomi forte contro il suo seno, la cui rotondità avvolgente, appena attutita dai vestiti, avevo percepito deliziosa sulla mia guancia, intanto che mi baciava una sola, lunghissima volta sulla testa, lasciando le labbra a perdersi tra i miei capelli; e io, incapace di controllarmi e preso quasi alla sprovvista dal mio stesso corpo, avevo gustato allora tutto il piacere che incontenibile mi stava già bagnando le mutande e i pantaloni, giusto qualche istante prima di arrossire di nuovo, confuso dall’imbarazzo, per via dell’odore acre che, inevitabilmente disperdendosi, di lì a poco mi avrebbe tradito e reso ridicolo ai suoi occhi.
Invece, con mia grande sorpresa, zia Maria, la portoghese, pur comprendendo bene ciò che mi era successo, si era limitata a sorridermi senza ironia né tolleranza, tenendomi anzi ancora un po’ tra le sue braccia mentre pigramente mi arricciolava i capelli affidandosi solo alla delicatezza della punta fredda delle dita, e non si era mostrata offesa o indignata così come mi sarei aspettato ma, nel riflesso dorato di miele e d’ambra con cui un’insolita luce poco inglese aveva improvvisamente infiammato il suo sguardo, mi era parso di cogliere invece una voglia antica e improvvisa di cantare, e in questa la discreta complicità della sua alla mia gioia.

(estratto dal primo volume)

©Andrea Rossetti

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