L’UOMO DISINCANTATO – Orfano affidato ma non adottato (2)

A un certo punto Zia Maria doveva aver percepito qualcosa di quei miei turbamenti, un segnale superficiale ed equivoco confinato nell’ambito delle apparenze, presumo una lieve alterazione della postura della bocca o un’improvvisa, minima ombreggiatura intorno agli occhi provocata dalle continue variazioni della tensione dei muscoli del viso, ma di sicuro non quanto in realtà essi fossero seri e complicati giacché, dando per scontato il fatto che io, a causa della mia età, stessi semplicemente faticando a comprendere i suoi ragionamenti, aveva prevenuto un’interruzione che comunque non ci sarebbe stata dicendomi col tono della voce storpiato tutt’a un tratto da un’ansia sbrigativa: “Aspetta, aspetta, lasciami parlare, voglio solo raccontarti qualcosa di me, offrirti il mio punto di vista, la mia verità, e dopo potrai giudicare senza vincoli, ti lascerò completamente libero di farti un’opinione su questa tua strana zia forestiera così poco amata dalla nostra – o dovrei dire meglio dalla vostra, famiglia – anche dai tuoi genitori, con tutto il rispetto eh, ma arrivati a questo punto è inutile che ce lo nascondiamo, perché spero davvero che averti qui mi porti finalmente un po’ di confidenza con almeno uno di voi, con te, visto che tuo zio, essendo innamorato di me, non fa testo. L’amore non fa mai testo, ricordatelo! Scusa se rido, ma non è per te, è per cose mie. Allora, ti va di ascoltarmi?”
Avevo risposto di sì, ma senza riuscire a parlare, limitandomi a un cenno affermativo stiracchiato col capo. In realtà quel suo discorso non mi era piaciuto affatto e anzi aveva inabissato ancora di più la profondità del mio malessere. Da quelle poche parole, che mi erano giunte malamente dolciastre e fin troppo aguzze, la zia era uscita trasformata ancora una volta ai miei occhi, proprio come capita ai sogni, quando crediamo di imbatterci nell’immagine gradevole di qualcuno che ci è familiare e che al mattino, da svegli, non appena tentiamo di rovistare nella nostra memoria fattasi improvvisamente legnosa e indisponibile, dobbiamo invece restituire ai panni deludenti di uno sconosciuto. Mi aveva disturbato innanzitutto il fraintendimento originario, che in qualche modo aveva inquinato alla fonte tutti i pensieri successivi di zia Maria, trascinandoli nell’inutilità per mezzo della presunzione, e addirittura l’immagine complessiva che lei si era fatta di me, alla cui rovina intimamente mi ribellavo così come chi ha perso l’equilibrio si oppone alla certezza della prossima caduta gesticolando in modo ridicolo e sgraziato. Non c’era solo questo però: lo scarso riguardo che aveva dimostrato parlando in modo tanto aspro dei miei genitori e nel negare, col distacco scostante di quel cenno, un minimo di considerazione per la mia sofferenza di figlio rimasto da solo, era andato in un certo senso a precisare qualcosa che tutto il suo discorso, sin dalla scelta delle parole, aveva già lasciato intendere per sommi capi, e cioè che c’era in lei una chiusura rabbiosa, un’indisponibilità assoluta, o addirittura qualcosa di più carnale, come una sorta d’inappetenza, nei confronti di tutto quanto non le riconoscesse il diritto alla centralità; nelle sue parole aleggiava una cruda violenza di ritorno, la rivendicazione esacerbata di uno squilibrio pagato a caro prezzo e perciò in apparenza imposto e ostentato. Dal di fuori si sarebbe potuto etichettare sbrigativamente questo atteggiamento come egocentrico ma la verità era un’altra: in zia Maria, la portoghese, mancava del tutto la deriva narcisistica alla quale prima o poi va incontro l’egocentrismo perché in lei quella propensione non si manifestava a partire da un limite caratteriale e non lambiva in alcun modo l’inconsapevolezza; nella sua condotta si poteva invece decifrare immediatamente una fredda determinazione, il compimento di una specie di rappresaglia programmata, di scelta morale ben precisa, che coincideva in sostanza col rifiuto calcolato di qualsiasi empatia gratuita, che cioè si esprimesse nella forma spontanea della generosità tra pari anziché in quella vincolata della concessione dall’alto.
Allora però, considerando che ero soltanto un ragazzino, tutto ciò mi era arrivato addosso disordinatamente, come un patchwork infantile di sensazioni ostili che, raggomitolato intorno al semplice dispiacere della solitudine, mi aveva tramortito con la stessa, tranquilla violenza di una donna alla quale si è appena dichiarato il proprio amore e che, dando un tono qualsiasi al suo imbarazzo, risponde: “Sono lusingata, non me l’aspettavo, ma se devo essere sincera ho sempre pensato a te soltanto come a un buon amico”.
Zia Maria si era mostrata subito molto soddisfatta per il mio silenzio (io ero un po’ nella situazione di quell’attore comico che a teatro perde il tempo giusto per dire la sua battuta e sa benissimo di non essere più in grado di recuperare perché ciò che avrebbe fatto ridere a crepapelle il pubblico solo qualche secondo prima sarebbe ormai destinato a produrre l’effetto di un colpo a salve, simile nel lampo e nello scoppio a uno vero ma incapace di colpire sul serio il bersaglio) e mi aveva gratificato con un sorriso gelido accompagnato dalla dolcezza introversa di una mano gentile passata fin troppo rapidamente tra i miei capelli: “Senti, mi è venuta in mente una cosa che un giorno ti servirà – aveva aggiunto sorridendomi di nuovo, sebbene con meno gelo rispetto alla prima volta, e lasciando in sospeso il suo discorso principale come si faceva nel teatro barocco quando veniva il momento di far rifiatare il pubblico con un interludio – ma devi promettermi che se te la dico poi rimarrà tra noi e non l’andrai mai a riferire a tuo zio…”
Io avevo subito annuito con ritrovata devozione mentre cercavo invano il piacere di un’altra carezza rassicurante spingendo appena il capo verso quelle dita fredde sulle punte che erano tornate immobili troppo presto.
“Beh allora – aveva ripreso lei – quando sarai grande e ti capiterà di ubriacarti, dato che è una cosa che di certo non potrai evitare, ricordati sempre che la perfezione, la gioia vera, non è mai nell’eccesso, dato che chi è completamente ubriaco poi diventa triste, violento, e sta male, vomita, e il giorno dopo si sveglia anche con un gran mal di testa, ma nel saper restare a lungo appena alterati, sempre in bilico, perché chi è brillo è solo allegro, ed è una grande, smisurata fortuna poterlo essere senza avere bisogno per forza di una buona ragione”.
Le sue parole (che indirettamente mi stavano rimandando all’essenza di ciò che in futuro avrei chiamato disincanto, sebbene a partire dal versante negativo di una sua possibile cura, quella cioè immediata dell’ebbrezza, senza dubbio primitiva, in quanto finalizzata alla semplice cronicizzazione del male e al conseguente abbandono della vita alla pura inerzia, se paragonata agli effetti drastici, chimicamente estremi ma ben più vivificanti e concreti delle pasticche di DOG, la droga miracolosa dei miei anni migliori, quelli di Wimbledon, e che all’epoca però non conoscevo ancora), e poi la carezza, e ancora la strana deviazione imposta agli argomenti e la morbida cordialità che tutt’a un tratto aveva intriso il tono della sua voce senza impedirgli di rimanere comunque ben lontano dal farsi davvero confidenziale, erano tutti segnali che in qualche modo parevano alludere a una più guardinga continuità di pensiero e d’intenti, tutta giocata sulla sottrazione, tra plagi e sottigliezze, con quanto ci eravamo e ci saremmo detti di lì a poco, e avevano se non altro confortato alla meglio i rigori eccessivi del mio malessere.

(estratto dal primo volume)

©Andrea Rossetti

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