Per Milica la partenza per Weimar era l’occasione ideale per dileguarsi, il coronamento del sogno di rendersi irriconoscibile alle circostanze, agli eventi, invisibile a qualsiasi desiderio; interpretava quel viaggio come una personale sede vacante, e lo affermava, non senza un velo di ironica superbia nel tono della voce, sottolineando con cura la definizione, che si richiamava direttamente a quella utilizzata dalla chiesa cattolica per definire il trono vuoto dei papi nell’attesa che, dopo quello morto, se ne faccia uno vivo. Milica voleva andare verso l’invivibile, desiderava conquistare, mediante quello spostamento geografico tanto repentino da lasciarla felicemente senza respiro, il suo proprio luogo romanzesco, l’assoluta letteratura di un’indole già certa e consapevole di sé ma ancora, tra le righe, non ultimata appieno e sospettabile, in più di un caso, di peccare di naturalismo. Voleva compiacere il suo capriccio di scansare ogni pericolo di vita vera e costante, desiderava per sé la certezza di non dover esistere per forza qui o là, sempre e comunque disgraziatamente reale, nemmeno per sbaglio, neanche per essere caduta in qualche trappola tesale dalla volubilità delle circostanze e così ben mimetizzata da renderla figlia della colpa del fraintendimento o di una malintesa contraccezione intellettuale. Desiderava, figurandosi già tutta frastornata nel bel mezzo dell’ansiosa velocità di un treno defraudato del suo paesaggio, di meritare una volta per tutte la natura di una favola, trovando aberrante anche la sola idea che una frivolezza realistica sviasse la sua autentica vocazione travisandola nella banalità di un luogo comune, quasi che la questione potesse passare senza problemi dalle competenze di un grande romanziere a quelle di un qualsiasi giornalista.
Proprio allora, e con la tempistica di un soccorso miracoloso, le era pervenuta la lettera di Charlotte: si trattava in sostanza dell’invito di un’amica di vecchia data di Elias che, senza una plausibile e motivata ragione, la invitava, facendo ricorso anche a un ingiustificato tono amabile e confidenziale, a trascorrere un po’ di tempo con lei a Weimar, in Germania, dove viveva.
Per un po’ Milica aveva tentato di ricordare chi fosse questa Charlotte e se e dove l’avesse mai conosciuta, ma quasi subito aveva preferito giungere alla conclusione che l’importanza di quell’invito non stesse poi tanto nelle trame che lo legavano al passato bensì nell’opportunità che le offriva di aprire un varco sul più auspicabile tra i futuri possibili. In caso contrario quella lettera non avrebbe avuto alcun rilievo né seguito, sarebbe stata semplicemente priva di senso, come una cosa di fatto incredibile e del tutto fuori luogo. Milica, però, l’agnostica impenitente che tratteneva in sé, come vuoti telai, i residui della sua primitiva educazione religiosa, sapeva bene che in una situazione simile fare i conti in tasca al colpo di fortuna che le era capitato sarebbe stato davvero un peccato mortale e quindi, in quattro e quattr’otto e col silenzioso e quasi sollevato consenso di Elias, fece i bagagli.
(estratto dal secondo volume)
©Andrea Rossetti