L’UOMO DISINCANTATO – Mignon ormai è morta

Erano già trascorsi molti anni da quei dodici mesi di giovinezza ineguagliabile, tragicomica e leggendaria – tanto simili ai sassolini ma anche alle molliche di pane del Pollicino di Perrault – durante i quali noi tutti che li avevamo vissuti nel gioco fitto di una stupefacente coralità che ci assegnava al tempo stesso un ruolo da protagonista – a me, per esempio, quello di giovane promessa del tennis inglese – e un altro da comparsa nella macchina barocca della vita pubblica, non eravamo riusciti a dare compimento a uno solo dei tanti progetti notevoli che a lungo avevamo desiderato e ipotizzato dovessero realizzarsi e il cui tempo invece era poi andato sminuzzato e disseminato, offerto completamente all’importanza tanto diversa e a priori inimmaginabile di un folto intreccio di situazioni private che alla fine avevano costituito per ciascuno di noi le fondamenta di una vera e propria educazione sentimentale, precoce, adeguata o tardiva a seconda dei casi. Forse anche per questo – e per l’inclinazione naturale delle grandi attese a smaterializzarsi nel successo oppure nel fallimento con la stessa indifferenza con cui la pagina di un bel libro e quella di uno brutto appena lette si lasciano ugualmente girare – da subito ogni cosa era tornata al suo posto inclinando sul versante sentimentale più alla cordialità dinamica tipica dell’allegria di certi commiati che ai tristi strascichi rancorosi che caratterizzano invece tutte le sconfitte. Il clima nel quale si era esaurito quell’anno di grazia aveva conservato identico il fervore dell’inizio, così come la concitata laboriosità di una colonia di api impegnate a costruire un nuovo alveare non si lascia distinguere da quella che le stesse mettono in opera quando si tratta di abbandonarlo in vista di una nuova migrazione.

Più di vent’anni dopo quei nostri giorni di ordinarie meraviglie, l’intera umanità si era infine lasciata alle spalle anche il grande capodanno del millennio e ai miei occhi di osservatore, al quale il disincanto aveva ormai fornito un punto di vista scientificamente perfetto in cambio di una vita del tutto inutile, il nuovo secolo pareva più che altro l’appendice incerta e caracollante del precedente, simile a una cala di modeste dimensioni, che di solito ospita a malapena gli ozi di qualche sparpagliato bagnante e dà ricovero solo a piccole barche e gommoni, che inaspettatamente venga prescelta da un regista famoso come set nel quale realizzare la finzione cinematografica di un grande porto per un kolossal hollywoodiano.

Proprio durante quel celebratissimo transito tra due secoli e due millenni, mentre un giorno leggevo “Il ritorno di Casanova” di Arthur Schnitzler fui colpito in particolare da una pagina, quella in cui si racconta della visita dell’ormai attempato avventuriero a un monastero femminile. Al di là della grata del parlatorio, ombre e sagome velate scivolano silenziose dal cuore di un’esistenza sottratta per sempre al clamore del mondo. Si indovinano le storie di una santità spesso asciutta e crudele misurate ininterrottamente dal tempo liturgico sovrapponendo la circolarità alla suddivisione e viceversa, come per un’ideale alternanza tra i piedi dei versi classici e le ostie sacrificali consacrate sugli altari. All’improvviso però – racconta Schnitzler – una di quelle vergini senza volto trova il coraggio di attraversare il silenzio claustrale che l’avvolge dando alla sua voce impercettibile il suono del nome del cavaliere di Seingalt: “Casanova …”
L’episodio si conclude così. Un amore antico o un desiderio d’altri tempi mai consumato? Non c’è risposta. Rimane un rimpianto destinato all’eternità. Il mistero inaccessibile di un sentimento sottratto per sempre alla vita, all’infimo uso del tempo al quale spesso essa ci obbliga. Schnitzler scrive di un Casanova che di ciò è consapevole mentre si allontana a capo chino “come dopo una grande separazione”. D’altra parte egli non può fermarsi, perché il racconto deve proseguire; e la monaca che così discretamente aveva voluto mancare al voto del silenzio viene risucchiata nel gorgo di un silenzio definitivo, destino questo che la letteratura riserva spesso alle sue creature più belle.
Durante l’estate del 2001, mentre stanco e accaldato mi aggiravo tra i padiglioni della Biennale d’arte a Venezia cercando disperatamente, tra i vapori dell’umidità che si levavano dai canali, qualcosa di veramente bello per cui esaltarmi, mi era accaduto di ripensare a quella pagina di Schnitzler. Un pensiero improvviso e casuale che però era giunto a proposito per aiutarmi ad affievolire nella mia mente il ricordo fin troppo nitido della Biennale di due anni prima che avevo visitato per intero in compagnia di Mignon, la giovane francese dagli occhi azzurri che durante i giorni epici di Wimbledon avevo incrociata tante volte, senza che però vi fosse mai stata una vera occasione di conoscenza reciproca, e che poi in quel 1999 che vedeva l’inaugurazione della prima delle due Biennali d’arte curate dal mistico svizzero Harald Szeemann, insperatamente e contro ogni verosimile probabilità, avevo ritrovata a pochi centimetri da me – riconoscendola subito, come per una naturale folgorazione, nella bellissima quarantenne che nel frattempo era diventata – in prossimità di una delle tante fermate del vaporetto che percorre il Canal Grande; senza d’altra parte che quell’incontro si velasse neppure per un istante di un ancorché lieve imbarazzo ma invece solo di grande e divertito stupore per la nitidezza che in entrambi aveva conservato la memoria di una conoscenza tanto marginale e risalente oltretutto a molti anni prima.

Proprio per questo, trascorsi appena due anni da allora, la cosa che più mi colpiva del presente era la gravità della mia solitudine. Mi pareva una sorta di allusivo presagio, di prova generale dell’inarrestabile metamorfosi del disincanto, prossimo ormai a farsi forte dell’insofferenza, dell’estraniazione e infine dell’esilio, come di un ideale treppiede. In quei momenti mi servivano davvero a poco i saluti dei tanti conoscenti – critici, artisti o semplici snob migrati in laguna solo perché incapaci della fantasia di non esserci – nei quali mi accadeva di imbattermi lungo il percorso. Potrei dire anzi che quelle chiacchiere dovute e sature di formalità acuivano il mio fastidio, così come l’infinita teoria di lacunose opere d’arte che incontravo sul mio cammino. Ovunque guardassi non trovavo motivi plausibili in grado di rovesciare le sorti delle mie fiacche schermaglie interiori con un distacco sentimentale che ne usciva sempre naturalmente vittorioso grazie all’accorgimento di non impormi mai una vera e propria sofferenza. Credo che in fondo mi sarebbe bastato anche un solo guizzo della mia perduta vanità mondana, qualcosa da ammirare con un istinto primitivo, come il breve bagliore di uno spettacolo pirotecnico nella notte, per distrarre l’apatia fino a concedermi un brivido consolatorio; anche se poi, andando a rovistare tra le apparenze ostinate della contraddizione sulla quale le fondamenta del disincanto avevano oscillato sin dall’inizio con la stessa sicurezza di un’architettura antisismica, era pure innegabile che io fossi tornato a Venezia, fra tanti apolidi snob dell’arte contemporanea, così rassicurati in linea di fatto dalla propria agiatezza da potersi permettere di essere poi delusi dal capitalismo in linea di principio, per rincuorarmi in loro compagnia di qualcosa che mi accontentavo di percepire senza ancora sentire il bisogno di conoscere: me stesso; che appunto il contatto con lo splendore crepuscolare di tanti sedicenti artisti e milionari autodidatti, in assenza delle allucinazioni necessarie per intrattenere un dialogo con le vere voci della laguna, accostava giocherellando alla stupidità degli elementi, all’evidente mancanza di risposte di senso finalmente compiuto.

Due anni prima invece Mignon scherzava accanto a me e mi raccontava con leggerezza e senza vanità di essersi laureata in architettura all’università di Delft specializzandosi poi in progettazione d’interni e design. Aveva un passo agile e il polpaccio guizzante e il suo sorriso aveva conservato intatta l’incandescenza naturale dei tempi in cui soggiornava a Wimbledon per studiare l’inglese, così come d’altro canto la sua voce, che ancora suonava spigliata di una giovinezza piena e felice.

Mi aveva colpito la sua bella ironia, capace di sortite fulminee e di lampi inattesi che come fuochi d’artificio sprizzavano all’improvviso dal sottofondo costante di un garbo tipicamente francese fatto d’informalità ed eleganza sbarazzina del quale trattenevano sempre con cura una scintilla fedele, una promessa già mantenuta di continuità in forma d’intenzione o anche soltanto di colore della voce. Preso dall’esaltazione del momento, mi ero persuaso con volenterosa superficialità che un legame sentimentale con lei sarebbe potuto addirittura durare per sempre e invece di lì a poco – appena il tempo di trascorrere insieme qualche notte d’amore nell’entusiasmo fin troppo appariscente di entrambi per una perfetta cornice da cartolina – tutto era finito a Venezia dov’era appena cominciato, come al solito per la mia cronica incapacità di sostenere il peso dell’assestamento della vita in una normalità quotidiana al termine del giorno di festa.
Non avevo più pensato a lei prima di tornare a Venezia per la Biennale d’arte successiva, esattamente ventiquattro mesi dopo. Mi ero convinto che dopotutto quell’episodio non fosse un ricordo degno di troppa indulgenza da parte della mia memoria: si era trattato solo di un flirt, di una svista nel mio incerto progettare la vita, di uno dei tanti abbagli necessari alla ricerca di una profondità nella superficie.

Tornando a percorrere le stesse vie e a inoltrarmi da solo nei medesimi paesaggi – tra l’altro anche per un’occasione identica in tutto e per tutto a quella che due anni prima era stata all’origine del nostro incontro – ero quindi rimasto sconcertato nel rendermi conto di quanto, dal mio punto di vista e a partire dal mistero privato della mia vita, quei luoghi fossero ancora fortemente impregnati della sua presenza. Mignon era diventata una mia mancanza alla quale Venezia attribuiva un’imperfetta soluzione universale, come quella che il triangolo equilatero fornisce al mistero della Trinità.
Per curare la malinconia io, che non credo affatto all’omeopatia, uso invece di solito proprio una strategia omeopatica: consumo modiche quantità di una malinconia diversa, astratta e devitalizzata, carpita con leggerezza dalla mia memoria alle pagine di qualche libro, poiché la letteratura mi serve ormai soprattutto per medicare le innumerevoli disabilità interiori con le quali convivo.
In quell’occasione mi ero appunto ricordato della pagina della monaca sconosciuta di Casanova e avevo cercato di riesumare col pensiero tutta la delicatezza delle parole e dello stile di Schnitzler. Così lentamente il ricordo di Mignon aveva perduto prima di compattezza e poi di persistenza. Era rimasta soltanto qualche immagine vaga, a debita distanza; e sullo sfondo le incerte memorie delle nostre parole tessute con quelle del racconto e da queste confuse. Niente che non fosse più che sopportabile per un esperto disincantato come me.
Poi il vaporetto, la mia camicia sempre più inzuppata di sudore, e il ritorno in albergo. Da solo.
Salito in camera, mi ero infilato calmo e felice sotto la doccia, determinato a restare seduto lì per ore a godere del flusso leggero dell’acqua tiepida che avevo indirizzata dritta sulla mia testa. Dopotutto le camere d’albergo sono sempre precise macchine di solitudine, che odorano di ispido metallo, sanno del legno secco e rude degli abbassalingua dei dottori e paiono denti da latte dentro gengive fragili, che sanguinano al minimo brulicare di piccoli rumori, sterminati e silenziosi, tutti infine e comunque di nessuna importanza.

La suoneria del cellulare, però, mi aveva inopportunamente richiamato al mondo reale e io, già paventando l’invito a una cena mondana ma non terrena, mi ero infine rassegnato a rispondere.
“Peter …”
Non potevo avere alcun dubbio: si trattava senz’altro della voce di Mignon. Poi però più nulla. Il silenzio. Il telefono senza campo. Tra l’altro non avrei potuto neppure richiamare perché la telefonata proveniva da un numero riservato.

Sul momento la cosa mi aveva lasciato interdetto, o dovrei meglio dire leggermente curioso, senza riuscire tuttavia a scuotermi per davvero sino in fondo; e infatti, di lì a poco, dopo aver spento le luci, mi ero addormentato.
Il giorno successivo, però, incontrando per caso a colazione un amico comune – uno dei tanti – ero venuto a sapere che in quell’afosa sera di agosto, mentre io vagavo tra i padiglioni della Biennale inseguito dal suo tenue ricordo, Mignon stava morendo di leucemia in una clinica di Lione.
Ancora oggi non comprendo perché abbia voluto riservare proprio a me uno degli ultimi o addirittura l’ultimo pensiero della sua vita; forse perché lei sapeva – lei sola, lei da sola, riscattando così l’onore e la dignità della monaca senza volto né nome di Casanova – che anche quella era in qualche modo e misteriosamente una grande separazione?

D’altra parte, però, a cosa serve ormai credere nel valore delle domande? Noi tutti, sapienti o ignoranti, corriamo svelti verso la tiepida bonaccia del più compiuto conformismo di massa, peraltro mai così sicuro e orgoglioso di sé in quanto finalmente informato anziché colto, e sociale invece che partecipato; andiamo moralmente fieri della nostra indignazione, generica più che generale, che ignora per principio ciò che è degno; pestiamo, come uva appena vendemmiata, il fango di un’età che nessuna storia degna di questo nome avrebbe mai il coraggio di guardare in faccia.

Credo in definitiva che, anche grazie all’enfasi impressa alla nostra cronaca senza storia dal frenetico progresso tecnologico che ci accompagna (e ci perseguita) come un contrappasso irridente, l’umanità non sia mai stata più ridicola, vulnerabile e illusa in modo grossolano da se stessa di quella che è oggi. Il culto nevrotico della giovinezza esibita, la vecchiaia disconosciuta e sempre più ritardata grazie agli artifici del maquillage e della chirurgia, la rimozione del pensiero della morte e il vitalismo inconsulto contrabbandato per vita vera, il consumismo compulsivo della socialità, la comoda realtà virtuale, la felicità intesa come ossessione e dovere, le benzodiazepine e gli antidepressivi euforizzanti chiamati a normalizzare, a rendere performativa e soddisfacente una vita interiore ridotta all’ordinaria amministrazione di un lessico elementare, il fallimento come lebbra del nuovo millennio, il cancro che, con la sfida lugubre della sua persistente ‘incurabilità’, inquieta alla stregua di una maledizione sciamanica e minaccia quasi da solo l’onnipotenza della medicina (la morte perfetta sembra essere diventata infatti quella che semplicisticamente permette di dire: “Non si è accorto di nulla!”; e nel frattempo la malattia è divenuta invece una lunga e interminabile agonia proprio perché si fa di tutto per ritardare il fatidico momento): è questo, descritto per sommi capi, né più e né meno che un mondo incantato, cioè intontito; un mondo in cui si smette di crescere a vent’anni per fare di tutto il resto prima apologia e poi manierismo, che va allegramente in rovina nella direzione opposta rispetto a ciò che ho cercato di decifrare come disincanto e in mezzo al quale, quindi, un uomo disincantato non può non essere – senza tuttavia doversi anche sentire – fuori posto.

Dopo di noi per fortuna non servirà nemmeno il diluvio; ma sarebbe il caso, finché è ancora possibile, di rendere almeno onore alla verità, riconoscendo che da che mondo è mondo il tempo non è stato per gli uomini – per tutti gli uomini – che un circolo vizioso, durante il quale nessuno ha mai imparato altro dalla sua vita che a morire.

(estratto dal terzo volume)

©Andrea Rossetti

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