Mio padre aveva due grandi occhi grigi che in gioventù erano stati azzurri e che di quell’antichità fascinosa avevano conservato intatti fino alla fine i guizzi luminosi; aveva i capelli appena ondulati che erano passati dal nero corvino al bianco candido già prima che arrivasse ai quarant’anni, la carnagione leggermente olivastra, nonostante il suo colorito fosse sempre stato piuttosto acceso a causa dei frequenti sbalzi di pressione, e la faccia oblunga che d’inverno, con una postura caratteristica che non ho mai più rivisto in altri, teneva ben pigiata sul collo in fondo al bavero rialzato del soprabito sempre impeccabile ed elegante; ma soprattutto risaltava il suo sorriso atipico appena accennato nel mezzo dell’ovale del viso, perfetto nella sua immutabile vaghezza per condensare nello sguardo, come in una patina di languore, l’inevitabile malinconia della vera bontà d’animo. Discendeva da una famiglia numerosa della buona borghesia londinese alla quale era rimasto profondamente legato come a una sorta di nido ideale da cui in fondo, quando era arrivato il momento di andare per la sua strada, si era separato malvolentieri, e che gli aveva lasciato come retaggio, oltre alla propensione naturale alla nostalgia e al culto quasi morboso della memoria, anche una sorta di timorosa diffidenza nei confronti della caducità della vita e dell’incostanza dei rapporti umani che col tempo l’aveva reso sempre più ansioso e sospettoso. Per la verità questa sua indole non era rimasta a stagnare solo nell’ambito più vago degli istinti e dei sentimenti ma, confortata da una religiosità densa di consapevolezze teologiche e di cultura umanistica, si era irrobustita in un’ideologia conservatrice, fortemente illiberale ma non priva di ampie concessioni al socialismo, e quindi in un ponderato pessimismo universale che in pratica però, combinandosi insieme, non gli consentivano di affrontare un imprevisto o una novità senza lamentare qualche disorientamento, tanta era la lontananza che gli imponevano rispetto alla spicciola realtà quotidiana che costituiva da sempre il suo teatro ideale, il terreno favorevole di tutte le sue battaglie private al quale istintivamente si era votato sin dai tempi in cui, da studente di letterature classiche, disegnava rigorose tabelle policrome all’inizio di ogni anno accademico per visualizzare meglio gli orari delle lezioni. Anche l’intima funzione della sua religiosità era sempre stata, in fin dei conti, quella di consentirgli di transitare equipaggiato a dovere attraverso le regioni più impervie dell’esistenza, conservando la diligente precisione di lettura che lo caratterizzava in ogni circostanza e che lui definiva, con un po’ di retorica e innocente approssimazione, “modello cartesiano”. In realtà, più che filosofico, il suo proposito poteva ben dirsi burocratico: interpretare la vita in ogni suo aspetto per mezzo di moduli e casellari, movendosi agevolmente tra procedure in dinamico accrescimento e scadenze da tenere a mente. Quando, per esempio, avendo già avviato nel migliore dei modi la sua carriera di alto funzionario della pubblica amministrazione, si era infine innamorato della donna che sarebbe poi diventata sua moglie e mia madre, aveva lasciato penetrare liberamente quel sentimento tanto nuovo e potente nella sua sfera affettiva più profonda solo dopo un’accurata e scrupolosa valutazione di quanto in quella dolce ed energica ragazza bionda, dalla modestia composta ed elegante, fosse stato davvero conforme ai suoi valori fondamentali e irrinunciabili. In mio padre nulla – e l’amore ancor meno di tutto il resto – poteva permettersi di essere istintivo o superficiale; e questo non per insensibilità ma, al contrario, per un’ansia assoluta di perfezione, per una sorta di massimalismo idealista nel volere bene che tendeva a scavalcare la rassegnazione alla provvisorietà propria della dimensione passionale mediante il privilegio accordato a un vincolo eterno di natura spirituale. C’era in lui qualcosa di stilnovistico e insieme di puritano che conferiva al suo buon cuore un’autenticità indiscutibile ma a tratti pesante e ossessiva. Quando infatti, dopo un lungo fidanzamento, aveva deciso di unirsi in matrimonio con mia madre, lo aveva fatto perché al perdurare dei suoi tentennamenti causati dal perenne conflitto interiore con la dimensione precaria del tempo e quindi della vita umana e delle scelte che le competono, aveva posto fine la consapevolezza imperativa di “essere giunto a quell’età, fra i trenta e i trentacinque anni, in cui un uomo serio, consolidata la propria posizione, deve pensare a una discendenza”: soltanto dopo essersi imposto questa quasi impersonale forzatura l’amore sincero per la donna che stava per sposare era stato finalmente libero di fluire dentro di lui con tutta l’incondizionata devozione della sua piena verità, come una nuova sorgente d’acqua purissima che scaturisce dalla dura roccia quando viene aperta dalla violenza del terremoto. Egli era giunto al matrimonio a modo suo, come a una scadenza fatale, come se si trattasse di un postulato di geometria piana, che però, in modo tanto imprevedibile quanto distintamente percepito nella determinazione degli auspici che da sempre l’avevano annunciato, gli aveva dischiuso l’accesso al piacere di un legame amoroso una volta per tutte davvero credibile per le sue complicate aspettative. Ricolmo di entusiasmo e consapevole della distanza definitiva che era riuscito a porre tra sé e gli inganni del facile sentimentalismo e della passione, si era fatto apprezzare subito da tutti per l’impeccabile, virtuosistico disbrigo delle pratiche matrimoniali.
Dopo appena un anno ero nato io e, a dispetto delle sue aspettative iniziali, che come fossero altrettanti dato di fatto prevedevano per tutti noi una vita lunga e sufficientemente appagante, dei consulti con clinici eminenti e dei ripetuti tentativi di impostare un’efficace terapia ricostituente, mia madre, la sua cagionevole sposa forse troppo gracile e delicata per passare così all’improvviso dalla sola levità dello studio dell’arpa alle fatiche rudi della gravidanza e della maternità, si era infine ammalata di quel progressivo deperimento che nell’arco di pochi anni l’avrebbe disseccata davanti ai nostri occhi come uno di quei ramoscelli di lavanda che lei aveva l’abitudine di mettere tra le lenzuola pulite affinché ne trattenessero il profumo. Così, giorno dopo giorno, l’attesa del commiato prematuro si era ritagliata il suo spazio nella vita di entrambi i miei genitori scolorando con la forza dell’abitudine l’algida drammaticità della conclusione inevitabile e restituendo in cambio un’imprevedibile fecondità alle occasioni di comunione familiare che il tempo corrente preservava invece ancora intatte e che per una strana associazione d’idee mi facevano pensare al volo pigro e ciondolante dell’ultimo palloncino che un venditore ambulante, ormai rassegnato alla sua rimanenza, lasci infine libero, facendo spallucce, in balia del crepuscolo, mentre intorno a lui già si stanno smobilitando gli accomodati padiglioni di una qualunque fiera in provincia.
L’ultimo regalo che mi aveva fatto mia madre poco prima di morire così giovane era stato veramente per me il più bello di tutti: una racchetta da tennis col manico di cuoio blu. Ricordo che all’epoca la desideravo tanto, con tutta la bella cupidigia arrogante tipica dell’infanzia, ma mio padre, ancora una volta irremovibile nel ruolo di vittima della sua ansia tormentata, dolciastra di un amore troppo esatto e divino per non essere anche pessimista, non era d’accordo, dato che ai suoi occhi il tennis era soltanto una disciplina asimmetrica e dannosa per il corretto sviluppo della colonna vertebrale di un bambino e lo sport in generale una distrazione nociva alla formazione di un uomo responsabile che tra l’altro – a suo dire senza vantaggi degni di nota – lo esponeva anche al rischio di infortuni e addirittura di menomazioni irreparabili. Me la fossi rotta davvero la testa in quel tempo limpido e beato e senza grinze, quando era ancora colma di fiducia ispirata e di desideri esuberanti fino all’orlo di tutte le ossa del cranio! Sarebbe stato in fondo come rompere un vaso di Pandora saturo di ingenui incanti e inverosimili fervori che si sarebbero poi dispersi dappertutto, invasivi finché si vuole ma destinati a fare danni altrove, sempre e per sempre a debita distanza da me. Invece mia madre, mentre se ne stava ancora in fin di vita tra di noi, in vena d’amore e di riconoscenza, aveva preso a caso uno di quei miei desideri, come se stesse estraendo un numero della lotteria, aveva infilato la sua mano nei miei sogni tirando fuori proprio quello, con accuratezza chirurgica, lei che di medici e chirurghi aveva ormai una vasta esperienza personale: una racchetta da tennis col manico in cuoio blu; e sfidando l’ira cortese ma non per questo meno determinata di mio padre me l’aveva regalata senza indugio – perché per lei, tanto gravemente malata, il tempo non poteva prendere più in alcun modo la forma di una vaga supposizione o quella di un progetto a lungo termine – e senza badare al prezzo: bellissima, all’avanguardia e perfettamente accordata come quella di un vero tennista professionista. Era stato davvero un atto magnifico, smisurato e maestoso come solo i più normali e quotidiani sono capaci di essere quando a spiegarli hanno dietro di loro un’intenzione di grande talento. Quel regalo di mia madre, infatti, non mi ha più lasciato solo. Mi tiene compagnia da quella volta. Per esempio anche oggi che l’idea stessa di desiderio suona nella mia mente con l’irriducibile mutismo di una campana ormai disarmata, che nella mia testa non è rimasta neppure l’ombra dei tantissimi numeri della lotteria che c’erano una volta, io posso dire con certezza di averne realizzato allora almeno uno, uno dei tanti, quello di una costosa racchetta da tennis da professionista con l’impugnatura in cuoio blu, che in quel giorno lontano mia madre ha avuto il merito portentoso di rendere il più importante, il più determinante di tutti, il primo e l’ultimo, dando così un primo senso e un’embrionale direzione al mio destino.
Mia madre si era quindi spenta adagio come il suo desiderio di diventare una grande virtuosa dell’arpa; e non per il sopraggiungere di una malattia veramente definitiva ma per la sempre meno efficace resistenza che il suo fisico riusciva a opporre ai molti malanni di tante stagioni. In quella circostanza mio padre, nonostante l’olimpica efficienza con la quale aveva governato il versante pratico dell’evento infausto, si era lasciato sorprendere da un soffio indecifrabile di malinconia, un’imprevista incrinatura nei consolidati e affidabili bastioni delle sue difese interiori, perché il peso del ricordo della moglie aveva una componente eversiva di leggerezza che sfuggiva al suo controllo e che gli impediva il beneficio della nostalgia per l’interferenza della disillusione. Sebbene quest’ultima si collochi ancora ben al di qua del disincanto, rispetto al quale conserva qualcosa di religiosamente materialistico nel tassativo stupore per i ripetuti fallimenti delle applicazioni pratiche dei concetti di stabilità e di eternità, mai prima di quel momento avevo sperimentato nei nostri rapporti una simile vicinanza, finalmente sufficiente a rendere in qualche modo sistematica la relazione tra padre e figlio. Per la prima volta in vita sua mio padre era stato costretto a compiere uno sforzo concreto e non privo di danni per oltrepassare il disagio di un dolore meno verificabile degli altri che gli impediva di considerare quel fatto – la morte della moglie – come una scadenza comunque compatibile con la prospettiva della perfezione. Negli anni successivi non aveva mai pensato seriamente di poter sposare un’altra donna – nonostante non gli mancassero pretendenti e opportunità – e aveva scelto di vivere da vedovo il resto della vita, onorando in tal modo la sua fede incrinata nell’eternità anche senza sottrarsi al ricorso, sintomatico di quel delicato inciampo nelle sottigliezze profonde dell’amore, a giustificazioni razionali come quella dei “tempi approdati troppo oltre” alla quale, sempre dopo un sospiro troppo breve per essere anche credibile, non mancava mai di aggiungere il seguito, cioè di conoscere bene “le giuste spettanze della giovinezza”.
Quando qualche anno dopo era morta quasi centenaria anche sua madre, la mia adorata nonna Imogene, quella pena esile, in bilico tra la disarmonia di un’andatura che incespica improvvisamente e l’affaticamento esacerbato da uno stato d’inedia, era tornata a sconcertare mio padre; fra le tante azioni che ordinavano i suoi giorni sempre più vuoti, gli capitava spesso infatti di trovare degli scampoli nebulosi di amarezza che se ne restavano giù, sul fondo oscuro della sua coscienza. Neppure le relazioni sociali, che tuttavia manteneva per una sorta di culto delle abitudini, riuscivano più a rendergli con la consueta pienezza il ritmo perfetto che una volta aveva scandito la sua vita in una serie precisa di “incombenze da espletare”; solo la bonomia un po’ cavillosa che caratterizzava la sua conversazione non mostrava, a dispetto di tutto, tracce di cedimento. Sempre più frequentemente si sorprendeva ad annusare soprappensiero i sacchetti di lavanda tra le lenzuola riposte nei cassetti perché quell’odore, rimandando a una consuetudine che per tutta la vita aveva accomunato la madre e la moglie, suscitava in lui uno stato incosciente di malinconia diffusa che, senza turbare l’ordine delle sue giornate, accoglieva e appagava un’ineffabile necessità parallela. Così la memoria aveva finito per pesare in misura sempre maggiore sulla sua esistenza senza tuttavia sconvolgerne troppo l’equilibrio: egli si piegava al bisogno di lasciarsi ferire nell’intimità dai più aguzzi contorni del sentimento del tempo mantenendo però in superficie il controllo su quell’insieme di situazioni che, scansando il disagio, si ostinava a identificare col senso pienamente disponibile della vita.
Col trascorrere del tempo, per uno di quegli strani automatismi dell’inconscio che innervano casualmente la formazione dei pensieri, la vita e la presenza stessa di mio padre avevano finito per accostarsi nella mia mente al ricordo di una leggenda antica che quand’ero bambino mia madre, avvolta a braccia conserte nella sua vestaglia preferita color rosa antico, dopo essersi seduta accanto al mio letto per farmi addormentare tranquillo prima di darmi il bacio della buonanotte, mi aveva raccontato spesso con la sua voce indimenticabile, fragile e cadenzata: la favola dell’invincibile generale bizantino.
Questa storia narrava che un impero leggendario, un ciclope che pareva invincibile, forte delle sue terre smisurate dove erbe pallide e spesso ingiallite precocemente ondeggiavano battute da venti inesorabili e freddi per l’intero arco dell’anno – fatto di un’unica stagione di luce bianca e nuvole nere, cinto da montagne grigie le cui cime erano occultate da una densa nebbia perenne che neppure le improvvise, rabbiose tormente riuscivano ad allontanare quando pioggia e neve sferzavano i sentieri malsicuri, i valichi interminabili, le voragini improvvise e sature di notte tra fischi tartarei e ululati barbari dei venti, impenetrabile grazie alle selve che si stendevano fosche e possenti senza orizzonte, aveva perso la guerra. La notizia si era propagata all’improvviso, lasciando sgomenti gli abitanti che popolavano dispersi l’infinito territorio. In molti, e in modo particolare i funzionari governativi più anziani, quelli con la croce d’oro e i mustacchi bianchi, avevano sospettato dapprincipio che si fosse trattato di un stratagemma del nemico per diffondere il panico tra la popolazione e soprattutto in seno alle gloriose forze armate che eroiche combattevano al fronte – un luogo lontano, che poteva essere a oriente o che forse era solo a occidente. Le autorità avevano invitato tutti alla calma, a conservare, con sano e fondato ottimismo, la certezza della vittoria. Ben presto però erano apparse le prime pattuglie della cavalleria nemica. I primi a scorgerle erano stati i pastori del sud, che erano rimasti attoniti al loro passaggio poiché non avevano mai visto divise di soldati stranieri. Temevano stupri e saccheggi, ma quelli erano invece passati veloci, a gruppi di cinque o sei, con le lance al cielo, le spade ricurve e corrusche lungo i fianchi e i colbacchi alti e neri sulle teste. I più istruiti e consapevoli tra gli abitanti delle campagne avevano osservato che sarebbe stato facile annientare quegli esigui drappelli se i comandanti delle guarnigioni avessero organizzato una minima resistenza; ma dai fortini, sui quali misteriosamente ancora garrivano al vento i vessilli dell’impero, non veniva alcun segno di vita. Le notizie successive erano state drammatiche: le invincibili armate imperiali ripiegavano su tutta la linea; i generali più famosi, i leggendari condottieri di imprese favolose, accettavano ormai disonorevoli condizioni di resa; il nemico avanzava dilagando verso la capitale; il trono stesso dell’imperatore vacillava. L’inquietudine cresceva, ma gli abitanti non erano in grado di organizzare una resistenza perché troppo lontani fra loro sull’infinita vastità delle terre imperiali. Alcuni avevano suggerito che in fondo le truppe nemiche erano assillate dallo stesso problema, come dimostrava la dispersione in piccoli drappelli delle armate che avevano oltrepassato il confine; tuttavia, a dispetto di ogni considerazione la paura, lo scoramento e la rassegnazione avevano infine avuto la meglio. E le notizie successive erano state il colpo di grazia: la capitale, la città favolosa che nessuno degli abitanti delle grandi pianure aveva mai vista, brulicava ormai di soldati nemici e il destino dell’imperatore era ormai segnato. Pochi giorni dopo, infatti, subiva l’onta della deposizione e abbandonava per sempre il palazzo imperiale, lasciandolo vuoto e spettrale, coi suoi tetti d’oro e i giardini incantati. Da quel momento però l’afflusso delle informazioni si era bruscamente interrotto. Un misterioso silenzio era disceso intorno alla natura dei nuovi ordinamenti e sul nome del nuovo imperatore, al punto che molti dubitavano addirittura che esistesse sul serio un nuovo impero. Nonostante tutto la vita degli abitanti non aveva subito molti cambiamenti, se non per una latente insicurezza che, alle volte, degenerava in malinconia. Era nata allora l’abitudine consolante di ascoltare i racconti degli anziani che avevano conosciuto a lungo il solido splendore del vecchio impero; e si era diffuso un sentimento di rimpianto per il passato e per le glorie trascorse che veniva trasmesso ai più giovani sin dalla prima fanciullezza. Da questo spirito era appunto germinata, intorno ai fuochi dei bivacchi e ai caminetti delle case, la straordinaria leggenda del grande generale bizantino. Alcuni viaggiatori avevano riferito che, nelle province orientali dell’impero, un valoroso condottiero, detto appunto il generale bizantino per via degli abiti sontuosi che era solito indossare, aveva riunito sotto il suo comando i resti delle truppe imperiali allo sbando, dando inizio a una serie di imprese eroiche contro gli invasori culminate in una vera e propria battaglia campale. Nel frattempo cresceva anche il numero di coloro che dicevano di aver visto l’eroe apparire sugli altipiani alla testa della sua armata, circondato dalle antiche, leggendarie bandiere dell’imperatore, con l’armatura da battaglia che pareva una gemma di sole e il ricchissimo mantello greco attorno al collo e sopra le spalle, mentre dominava la focosa violenza del suo possente destriero nero dagli occhi ardenti. Ben presto il generale bizantino era divenuto l’oggetto di ogni discorso e di ogni racconto, e quindi un motivo d’orgoglio e di speranza per tutti. Grazie a lui si era un poco assopita l’incerta malinconia che segnava le giornate degli abitanti di quello che era stato l’impero inviolabile dell’imperatore; e non c’era chi, almeno per un istante alla sera, appena prima di coricarsi, non scrutasse attentamente dalla finestra le grandi pianure sperando in cuor suo di vederlo apparire, proprio come nelle storie dei pastori e dei viandanti, lanciato al galoppo con i suoi soldati verso un’ormai prossima vittoria.
In seguito infatti, proprio come nella leggenda di quel condottiero immaginario, la vita di mio padre era precipitata giorno dopo giorno, con spavalda lentezza, in un clima di deterioramento fatto di tanti particolari mancanti, di sparizioni giornaliere di minimi dettagli, logorati dall’accresciuta visibilità della fatica e dal crescente nitore della stanchezza come in una sorta di restauro rovesciato, osservante della lettera ma infedele nello spirito. Tenendo sempre le mani serrate dietro la schiena in un gesto nel quale riassumeva tutta la forza tesa della sua maturità, aveva cercato per qualche tempo di intravedere dalla grande finestra del suo studio, oltre i tetti e le innumerevoli sfaccettature del profilo della città, le sagome variegate dei tanti luoghi del porto fluviale e non potendole scorgere con chiarezza aveva iniziato a coltivare l’abitudine di immaginare almeno il suono delle sirene dei bastimenti in arrivo e in partenza, non mancando mai in quei momenti di sospirare lungamente a causa di un vago e indolente dispiacere. Forse era stata l’ombra persistente delle due donne – la madre e la moglie – che avevano impresso nella sua vita l’impronta senz’altro più felice ma nel contempo anche maggiormente inconciliabile con la sua natura a indurlo a sfiorare sempre più spesso il pensiero che il tempo a sua disposizione fosse giunto in prossimità del suo limite estremo: le navi, la partenza, non più mete e programmi accurati, partire e basta, col solo scopo di dileguarsi nell’oceano. Mio padre però faticava a considerare la propria morte come una “scadenza”: non l’avrebbe infatti potuta gestire, e questo era il suo ultimo turbamento, l’anello che ogni volta chiudeva la catena in cima a un esile sconforto.
Ciò nonostante una volta era uscito dicendo di dover fare delle compere: era stata una decisione che aveva preso stranamente di getto, senza bisogno di interrompersi più volte per pensare come faceva di solito. Infatti la sua mente era già impegnata altrove, a seguire un tumulto remoto, un brusio fatto di voci e di tracce. Mentre camminava spalancava gli occhi nel tentativo di scoprire se nell’abisso che aveva di fronte fosse contenuto anche il suo piroscafo in partenza. A un certo punto, mosso da una sorta di scaltrezza accidentale, aveva svoltato di scatto verso un abbaglio di luce più potente e si era ritrovato in mezzo a qualcosa che aveva l’apparenza di un molo proteso verso nord nel mormorio delle onde schiumanti. Era il mare che gli era venuto incontro! Mentre percorreva quella lingua di terraferma col passo regolare di sempre aveva la sensazione che il suo piroscafo pavesato a festa fosse finalmente visibile in fondo a ogni cosa e che fischiasse con sontuosa allegria. Una folla immensa gremiva il ponte salutando coi fazzoletti e lui aveva forse riconosciuto tra quella gente felice anche i volti amati di sua moglie e di sua madre, fatto sta che aveva iniziato a salire la scaletta che conduceva alla nave, cioè a sprofondare in acqua. L’ovale perfetto della sua testa aveva galleggiato per qualche secondo prima di scomparire lasciando in superficie il bel cappello grigio a salpare da solo nel cauto slancio della corrente. Il suo corpo senza vita era stato invece rinvenuto parecchi giorni dopo, arenato addirittura a trenta chilometri a est di Londra, là dove il Tamigi si apre a imbuto e penetra nei banchi sabbiosi di Nore sotto l’occhio vigile di un faro, poco prima di quel Mare del Nord che, se raggiunto, lo avrebbe inghiottito per sempre nel suo nulla, forse accontentando l’ultimo e il più vero desiderio della sua vita.
La particolare natura di mio padre aveva fatto in modo che il suo dolore non si concretizzasse mai nella forma di una vera e propria disperazione così come che il silenzio – che per lui costituiva l’ossatura fondamentale dell’accettabilità stessa della vita – non si frantumasse in alcun modo nel simbolico estuario interiore di un grido liberatorio. Il dolore, infatti, ha una dimensione strisciante, profonda, sotterranea, imbeve il tempo come fa il sangue di una ferita alla schiena col tessuto della camicia che l’avvolge; la disperazione invece è un’altra cosa, sta al dolore come un ascesso, ma non è la regola, è l’eccezione, è il male che si rende disponibile alla cura, lo sfogo necessario; essa, in fondo, ristabilisce l’equilibrio, contempla beata una cicatrice come proprio destino finale. Non diversamente accade nella relazione tra l’urlo e il silenzio: quest’ultimo, infatti, non è mai un momento ma la condizione costante nella quale l’urlo perennemente annaspa, rantola, gorgoglia; e quasi sempre, prima che sia ogni altra cosa, si lascia anche prevenire dalla soddisfazione della resa.
Prima di andare incontro in quel modo singolare e in larga misura inesplicabile a un destino che forse aveva scelto o che, più probabilmente, si era solo limitato ad assecondare, mio padre, così come la sua indole gli comandava, non si era sottratto all’obbligo rituale di lasciare una lettera destinata a me e che io però, per volontà dei miei zii, avrei letto solo qualche anno più tardi, al compimento della maggiore età. Questa lettera, che un estraneo, ignaro non solo del caratteristico temperamento del mio genitore ma anche della natura a dir poco atipica e faticosa del rapporto che egli aveva con me (nel quale la componente affettiva si era da sempre adattata per principio a farsi portavoce dell’educazione, sacrificando così ogni immediatezza sopra l’altare, o sarebbe forse meglio dire sulla graticola, di un ansioso senso del dovere), non esiterebbe a catalogare nel genere classico e un po’ banale dei messaggi d’addio, è in realtà, di certo nello stile e nel contenuto ma soprattutto in quell’intenzione a monte che soltanto io sono in grado di indovinare, il tentativo dei suoi scrupoli morali di perpetuarsi al di qua della morte e al di là dell’amore paterno.
“Figlio caro,
l’insegnamento che sto per darti oggi, e che tu, per tua fortuna, oggi non comprenderai, splendente come sei ancora del sorriso perfetto dell’infanzia che tutto ti riveste, è un dono. Comunque lo si veda, esso è un regalo autentico, e quindi prezioso, perché l’autenticità di un dono è l’amore che si porta appresso. Amore: una parola che sentirai pronunciare tante volte e che per questo è la più inutile di tutte, quella meno costosa da dire perché per valere sul serio dovrebbe essere taciuta, quella che maggiormente sbuffa aria qua e là nell’universo. L’amore non va detto, l’amore va lasciato al silenzio grande della sua verità. Tu sei il mio amore ma non sei appunto una parola, tu sei un evento che tanti e tanti altri chiama intorno a sé, tu sei una corte regale di eventi che non hanno prezzo possibile, nei quali s’industriano ardentemente, gioiosamente e a volte purtroppo minacciosamente l’estro del caso e l’indole della fortuna. Tu sei un fatto. L’amore, dunque, è un fatto che ha valore nel chiamare se stesso: l’amore è amore, l’amore chiama, vuole e pretende amore. L’amore è qualcosa che accade tacendo, e che si espande con nessun rumore ma incessantemente, come quanto tu mi sorridi, per esempio. Non ammette barriere, l’amore, anzi le patisce, preso com’è dall’ebbrezza della sua conquista, così come soffre d’essere chiamato, evocato, analizzato, spiegato. I discorsi d’amore e sull’amore sono le sue mutilazioni, le ferite di guerra, uno sperpero incolore di potenza, come una liturgia che, celebrando Dio per segni capricciosi e narcisisti, ne celebra in realtà la disperata assenza, la lontananza inguaribile. Solo se non c’è amore si parla d’amore, rammentalo.
L’amore si fa, figlio mio, non c’è alternativa a questo, come non ce n’è tra la verità e la menzogna.
Ti dicevo che il movimento proprio dell’amore è l’espansione, il riempimento generoso del vuoto, il dilagare festoso come fatto nei fatti, come senso e luminosità dei fatti medesimi.
C’è, però, un altro fatto, non meno inoppugnabile e ugualmente silenzioso.
All’espansione dell’amore come fatto si oppone il tempo della nostra vita. Il confine al di là del quale la gioiosa conquista deve esaurirsi, spegnersi. Ma il tempo non ferisce l’amore, esso lo contiene, ne è l’involucro, il pacco dono, l’ampolla del suo inebriante profumo, la possibilità di un perimetro la cui misurazione è la poesia forte della realtà dell’amore stesso, l’offerta della fattività al fatto, l’incantesimo di un luogo a ciò che altrimenti resterebbe l’astrazione di un puro miraggio.
Il tempo è un altro dono e non va inteso come fine ma come forma compiuta dell’amore, come il nome del suo necessario e prezioso silenzio.
Il tempo è il confine dell’espansione, è ciò che separa l’amore dall’amore perché ogni fatto, per essere tale nella verità, deve pagare il prezzo della sua propria, particolare e irripetibile circostanza.
Il tempo è ciò che rende l’amore te e me e non qualcosa o qualcun altro, e il costo di questa giustizia, di quest’armonia doverosa, è il dolore della separazione.
La gioia di riconoscersi richiede il coraggio di essere distinti, e infine di lasciarsi andare.
Anche e soprattutto questo è un dono d’amore: il dolore consapevolmente assunto come condizione della realtà radicale, prorompente, definitiva di un incontro irripetibile, di un abbraccio senza precedenti e somiglianze.
Con amore, appunto,
il tuo Papà”
(estratto dal primo volume)
©Andrea Rossetti