Ci sedemmo su una panchina di pietra, quasi nel centro perfetto del parco, io in camicia bianca e pantaloni di lino, la Lady in abito lungo di lino chiaro, quasi trasparente, cintura da vestale ai fianchi e sandali color tabacco. Mi chiese di non fumare (cosa che, da tennista, avrei dovuto evitare a prescindere dai suoi desideri), ma lo fece restando in silenzio, nel solco dell’eleganza perfetta scritta nel suo patrimonio genetico, cioè solo indicandomi, lungo l’arco di tempo che le era necessario per un sorriso, la pelle appena abbronzata del suo collo, vicino alla gola.
Cominciai a parlarle disordinatamente dei preparativi delle celebrazioni per l’edizione del centenario del torneo di tennis, coincidente col giubileo della Regina, e della mia intenzione di parteciparvi disputando le qualificazioni. Lei ascoltava senza interrompermi, senza lasciarmi presagire alcunché di straordinario. A un certo punto, invece, decise di posare a tradimento la sua testa sulla mia spalla: i suoi capelli mi si sparsero addosso come una nuvola d’oro profumata di spezie indiane e la mia voce s’incrinò in palese debito d’aria, quasi inginocchiandosi di fronte all’affermazione perentoria di questa bellezza improvvisa, mentre anche il mio sguardo si piegava, completamente controllato dalla curva generosa del suo seno appena rivelata nell’ondularsi astuto della scollatura.
Le presi una mano, ne seguii con l’indice il merletto delle vene sottopelle, godendone la morbidezza assoluta e il rosso cremisi dello smalto delle unghie che, intanto, già fraternizzava con accecante perfezione col blu della pietra del mio anello.
Fu esattamente in quel momento che, mio malgrado, supposi ancora una volta di essermi innamorato.
L’amore – si sa – ci governa carezzando, come il volo alto o radente di un falco pellegrino, copre indifferentemente distanze buie e luminose, imperversa prossimo come una danza o echeggia mimetizzandosi nella musica impercettibile di una festa lontana, assottiglia coscienza e dignità fino a farne un’equazione che poi ostinato risolve sempre uguale a zero, è il serpente che si morde la coda, perennemente lanciato all’inseguimento di se stesso, da guardia e da ladro, smodato nell’essere incessante e temperante nel non estinguersi. L’amore si nutre, si disseta, avvolge, annusa, penetra, ghigna, sorride, brancola, dirige, lusinga, colpisce, avvampa, cova, piange, spegne, combatte, si arrende, culla, ridesta, è la tregua e la guerra. Esso nel volto, nel corpo che desidera, talvolta con tale intensità da sciogliersi nell’isteria capricciosa del pianto, riconosce e conosce se stesso fino a rischiare l’arsura assoluta dello specchio, il compiacimento della frugalità e della privazione, l’ossessione dell’ebbrezza e dell’estasi. E tuttavia l’amore sa essere anche estremamente consequenziale, addirittura fino a darsi torto, fino all’estremo sacrificio della contraddizione, fino a comprendere l’odio, nella totale ambiguità di una vera fratellanza elettiva.
Così quando la Lady, com’era già deciso a monte del suo gesto, con perfetto equilibrio, cioè senza eccedere né in languori istintivi né in volontà seduttiva, ben consapevole dell’arrendevolezza innata dei sentimenti, mi chiese: “Mi ami un po’?”, io le risposi nel solo modo che mi era rimasto: “Ti amo e basta”.
(estratto dal secondo volume)
©Andrea Rossetti