All’improvviso mi ero reso conto che il mio occhio interiore, educato dal disincanto a esercitarsi ormai stabilmente su distanze emotive che guadagnavano in accuratezza tutto ciò che perdevano in linearità, stava subendo una sorta di sviluppo a ritroso verso una condizione primordiale, una fase del suo sviluppo tanto originaria da non essere mai stata neppure sfiorata prima dai miei pensieri e nella quale la novità più assoluta finiva per identificarsi con la propria impronta archetipica. Così potevo percepire lo sguardo della mia psiche mentre si evolveva dalla messa a fuoco alla sfocatura, ogni volta ferendosi lentamente col punto di fuga di ciascuna immagine mentale come se si trattasse della sottile lametta di un rasoio – sull’esempio della pratica del cutting frequente tra quelli che i servizi sociali definiscono adolescenti difficili – senza però provocarmi altro dolore che non fosse già contenuto nel naturale abbandono del desiderio di tutto ciò che non avevo mai avuto e che d’ora in avanti per me sarebbe stato comunque angosciosamente insignificante avere. Una deriva a conti fatti gentile, mai ambigua o confusa ma ispirata dalla devianza e compiuta dalla deformazione, modellatasi a poco a poco sull’esperienza di giornate praticabili sino in fondo soltanto grazie al rifiuto ostinato di ogni compromesso con due concetti che allora potevo già chiaramente intendere anche in mancanza di una vera e matura consapevolezza: il massimo comune vivere (MCV) e il minimo comune desiderare (mcd), cioè i valori dell’ascissa e dell’ordinata nel piano che ogni giorno rende possibile a gente altrettanto comune di rappresentarsi una vita geometricamente piatta, che parimenti non ha nulla di incantevole e niente di disincantato.
Ogni giorno aspettavo la notte soltanto per il piacere di potermi strizzare il cuore in quel modo fintanto che il suo battito, così dolcemente spremuto, non avesse cominciato di nuovo a detonare, come in una serie senza fine di cariche esplosive che ogni volta allargavano un po’ di più le maglie della rete in cui la vita aveva intrappolato il mio cervello.
Abbracciando il senso profondo della sfocatura il mio sguardo interiore aveva ritrovato alla fine la leggerezza della sua verginità più infantile, nella quale però a quel punto era in grado di percepire anche i tratti distintivi del disincanto, ovvero la perfezione logica e la precisione sentimentale della distanza, e poi la riconoscibilità sufficiente di ciò che non ha più contorno. Esso era passato da uno stadio, che almeno in base all’apparenza diacronica si sarebbe dovuto ritenere quello iniziale, in cui, nonostante gli riuscisse meglio concentrare la propria attenzione sulle cose del mondo che aveva più vicine a sé, era comunque perfettamente in grado di vedere oggetti e persone a qualsiasi distanza questi si trovassero, all’evoluzione digradante del primo dei due momenti intermedi, contraddistinto dalla capacità di ricostruire qualsiasi cosa a partire da un’unica sensazione anche solo accennata e da un embrionale coordinamento tra visione ed empatia, che lo portava sempre più spesso a cercare di appagarsi mediante esperienze dirette, invogliate soprattutto dalla scoperta dei minimi particolari, e da un’insaziabile passione per il movimento.
Nell’altro stadio intermedio, il penultimo in assoluto, il mio occhio interiore, pur sopportando una nuova disgregazione chirurgica delle sue presunte conquiste solo per potersi evolvere in linea con l’essenza disincantata del vero darwinismo, era invece riuscito a focalizzare relativamente bene gli oggetti in movimento, raddoppiando al tempo stesso il proprio punto di vista alla ricerca di motivi sempre più complessi, tanto estasiato dalla smaltata brillantezza dei colori del giorno quanto refrattario a ogni manifestazione della loro sfumata opacità crepuscolare.
Alla fine, quando la mia vista spirituale era già perfettamente maturata, la mente, che avrebbe dovuto processarne le informazioni, aveva fatto un sorprendente passo indietro, come per un mancamento sentimentale ispirato alla recitazione di quelle attrici che, ai tempi del cinema muto, volendo svenire nel modo più convincente possibile a dispetto delle riprese piuttosto rudimentali con le quali dovevano misurarsi, si appendevano a ogni tipo di tendaggio disponibile con la stessa, iperbolica solennità – solo plasticamente appena più arcuata – che mostravano sui palcoscenici teatrali, e si era messa a cercare ancora una volta l’idea del viso gentile di qualcuno che volesse tenermi comunque stretto tra le sue braccia; finché, fattasi riflessiva e malleabile una volta per tutte, aveva accondisceso senza più incertezze alla libera percezione della luce, delle forme e del movimento, continuando a distinguere fedelmente solo il bianco dal nero, così, come se si trattasse della dote dignitosa di una sposa non più giovane ma illibata.
Lasciandomi trascinare – un po’ come accade a una marionetta sollecita nel rispondere a ogni minimo movimento dei suoi fili segreti – da quell’insolita quiete che percepivo piena e senza riserve anche se ispirata più all’accettabilità delle cose che alla volontà di trarre un’autentica soddisfazione da esse, mi ero accostato con calma alla finestra della mia camera.
Al di là delle tende, quell’angolo di mondo che costituiva il minuscolo paesaggio offerto alla mia vista esterna, ben più ristretto di quello che avevo setacciato fino a quel momento lasciandomi andare con gli occhi chiusi al volo librato del mio sguardo interiore, pareva gualcirsi lungo saliscendi contorti di linee rette, come un grande foglio di carta stagnola dipinto a partire da un colore di fondo confortevole ma guasto, qualcosa tra la lucentezza inquinata del rame e il rossiccio metallico e pastoso della sabbia dei deserti, e se ne stava appeso ai rami degli alberi, al profilo degli edifici, ai piccoli dischi volanti proiettati dai fanali sul dorso di guizzi luminosi che somigliavano a scie fatte con la lana appena tosata di pecore fosforescenti, al grembo delle strade affumicate dal bitume, con un abbandono tutto suo, macchinoso eppure a tratti anche penosamente svolazzante e non privo di brio.
(estratto dal primo volume)
©Andrea Rossetti