L’UOMO DISINCANTATO – Marguerite (2)

Un giorno l’avevo incontrata per strada, quindi al di fuori delle normali occasioni legate per lo più alle visite che i suoi genitori, portando in regalo ogni volta grandi scatole di cioccolatini belgi, facevano alla mia famiglia; anzi per la precisione dovrei dire che l’avevo semplicemente scorta, giacché lei non mi aveva visto, e che, dopo aver trovato in fretta un nascondiglio saltando dietro l’albero più vicino, mi ero ben guardato dal farmi avanti per salutarla; e questo soprattutto perché stava passeggiando insieme a un ragazzino, forse un compagno di scuola, che ogni tanto, con disinvolta impertinenza, si abbassava accosciato passandole il braccio dietro le ginocchia per fargliele piegare e poter stringere così per un attimo il vellutato abbandono delle sue gambe mentre lei, sghignazzando in modo per me esageratamente stridulo, perso tra sonorità così acute da non avere più niente in comune con la risata composta alla quale mi aveva invece abituato, gli poggiava la mano sulla spalla per non cadere. A distanza di alcuni giorni poi l’avevo rivista, stavolta a casa mia, mentre i suoi genitori, cinguettando una miriade di commenti strampalati, ascoltavano insieme a mio padre, come sempre cortese ma taciturno, dei dischi piuttosto noiosi di Jacques Brel. Lei se ne stava in disparte, con l’occhio dondolante nel vuoto di chi sente tutto senza ascoltare niente, e intanto divaricava le gambe, coperte da spesse calze color carne e dal solito gonnellino grigio plissettato, lungo fin sotto al ginocchio, per trascinare tra le cosce una stufetta elettrica a rotelle che nelle giornate più rigide, data l’ampiezza della stanza, mio padre teneva accesa al minimo per corroborare l’effetto del riscaldamento centralizzato. Poi aveva iniziato a canticchiare sottovoce le canzoni di Brel, come per spolverarle appena, senza invadenza, limitandosi a staccare la patina di monotonia belga che si era depositata tra le note; e mentre sentivo la sua voce tornare alla purezza delle origini, prendendo le distanze da quella – davvero pessima – che avevo udito invece sghignazzare a rimorchio dei giochi del suo amico, mi era sembrato all’improvviso, per via dei moti connettivi provocati dalla stufa, di poter annusare il suo odore più intimo, un profumo di sesso vergine e disponibile che tutti i vestiti del mondo non sarebbero mai riusciti a contenere; era stato il mio primo incontro olfattivo con l’essenza pura, con l’anello di congiunzione tra la chimica e lo spirito, che per tutto il tempo a seguire, in quel pomeriggio davvero indimenticabile, aveva poi sempre ripreso fragranza ogni volta che il calore altalenante del piccolo calorifero era tornato a salire con più decisione, sfiorandole le ginocchia e soffiandole sulle cosce, fino a raggiungere, attraverso l’arrendevole trasparenza delle mutandine, il piccolo solco umido di sudore e forse anche dell’effetto imprevedibile di qualche mimetizzata fantasticheria.
Era innegabile che tanto in me quanto in Marguerite qualcosa fosse definitivamente cambiato, introducendo nella vita di entrambi degli elementi di agitazione e di discontinuità che, senza mutare il nostro punto di vista, ne avevano tuttavia trasformato in modo radicale la prospettiva. Restavano uguali soltanto le attitudini di ciascuno: io che guardavo lei, e lei che, piuttosto, guardava il mondo, ma da tutto ciò, dalla mia contemplazione della sua esistenza così come dal candore elegante col quale lei la offriva a me e non solo a me, era stata estromessa quasi a tradimento ogni traccia della nostra infanzia, che era poi il tempo propizio in cui ci eravamo incontrati.
Senza accorgercene, cogliendo per caso o per miracolo lo stesso momento, eravamo entrati insieme nella pubertà – io forse troppo precocemente, lei invece dopo un’attesa eccessiva, ma comunque uno accanto all’altra – e grazie a questa straordinaria e irripetibile assonanza avevamo raggiunto e oltrepassato anche il limite massimo di ogni nostra concreta opportunità d’incontro, perché le vere conclusioni, almeno quando stanno decisamente e per intero dalla parte della bellezza, implicano la nostalgia e quindi un ripiegamento e i ripiegamenti per loro natura non hanno un futuro che non sia già tutto un affare interno alla memoria.
Quando infatti l’avevo rivista, pochi mesi più tardi, lei era di ritorno da un vacanza a Parigi, e nel frattempo il cambiamento che l’aveva allontanata per sempre da me non era rimasto senza ulteriori conseguenze, spingendola a scendere a patti con un’esistenza del tutto corriva; la sua stessa carnagione, che io ricordavo incantevole, era diventata come quella di una qualsiasi sciatta studentessa, una che fa a cambio di cosmetici con le amiche, impiastricciandoseli poi sulla faccia malamente lavata con le dita sporche d’unto di pop-corn e di patatine fritte, senza curarsi nemmeno di quale impetigine, eczema o acne possa averli già contaminati.
La mia infatuazione per Marguerite era dunque finita così, con estrema naturalezza e all’improvviso, non tanto per il venir meno dei motivi che l’avevano ispirata quanto per una sorta di conciliante amnesia, di torpore primaverile che, andando a prima vista contro la sua stessa natura, anzi quasi possedendone due differenti, una contenuta nell’altra, come succede per la crisalide e la farfalla, aveva spinto in avanti con forza e fino al punto di non ritorno la trasformazione che era in atto nel mio modo infantile di provare interesse per le cose e, seguendo l’abbrivo di un preciso effetto domino delle passioni, anche nel catalogo interiore di tutti i suoi possibili obiettivi e desideri.
Nel tramestio di quella prima, grande metamorfosi, al termine della quale avrei ritrovato la mia infanzia completamente ridisegnata dalla pubertà coi lineamenti marcati dell’adolescenza, grazie a una luce meno chiara e più morbida, il disincanto – che non è un qualsiasi sentimento della vita ma la traduzione letterale dell’essere nell’esistenza – aveva subito dato prova di naturalezza camaleontica e di solide capacità evolutive e di adattamento. In quel passaggio difficile, infatti, segnato dal repentino svaporare di tutta la mia benevolenza nei confronti di Marguerite e dalla determinazione, diventata nel frattempo ancora più incrollabile sotto il peso degli sconvolgimenti ormonali, di trovare un ancoraggio pratico alla vita che mettesse da parte – sul momento non mi ponevo il problema se per sempre o meno – la versione più genuina di me stesso, quella governata dalle mie inclinazioni contemplative, che era però anche la meno intrigante e accessibile per la mondanità delle cose alle quali ora desideravo guardare finalmente col fervore di un trasporto violento, la pigrizia, resa furba da un male felice, aveva d’un tratto rinunciato per intero al suo peso; e, dopo essersi eclissata per un po’ dietro sensazioni provvisorie che somigliavano abbastanza a soffi di allegria e di leggerezza, si era infine concessa una vera sosta, la cui durata non saprei quantificare con precisione, abbandonandosi inerte a galleggiare di nascosto fra i miei più diversi pensieri in attesa del momento in cui, tornando d’un tratto a manifestarsi, l’aveva fatto col virtuosismo di una sapienza davvero stravagante, che oggi mi piace credere traesse puntuale ispirazione da ciò che avviene nel momento in cui il conflitto tra molecole polari e apolari, trovando buona sponda nel principio fisico di Archimede, separa con limpida esattezza una singola goccia preziosa di olio profumato dalla più sterminata tra le distese d’acqua nella quale per puro caso è precipitata. Non essendo più solubile nella realtà, come accadeva invece in precedenza, e ciò a causa della combinazione incalzante tra la mia voglia ostinata di vita attiva e l’energia favorevole che mi arrivava intensa dalla pubertà, quella che era stata l’antica e ponderosa pigrizia del disincanto si era alla fine convertita in semplice distrazione, un’attitudine ben più leggera e sottile, trasformandosi nell’affiorare lieve di qualcosa, una specie di pellicola superficiale, che era anche un confine adagiato, non senza grazia, sull’estensione massima dei miei possibili cambiamenti. Dal punto di vista emotivo quella era stata per me una trasformazione assolutamente elettrizzante – come l’innesto pieno di speranza creativa di un contadino che a fin di bene impone all’albero un frutto diverso dal suo oppure l’ebbrezza contenuta dell’uomo elegante che, durante un ricevimento à la page, osserva di sottecchi, restandosene a debita distanza, la donna della quale è tacitamente innamorato mentre civetta col primo, aitante playboy che le è capitato a tiro, senza mai smettere di sorridere a tutti e di serbare un bizzarro ottimismo circa il proprio futuro sentimentale grazie alle maglie di quella realtà che il whisky ha allargato per lui quanto basta – perché aveva assecondato tutti i mutamenti impliciti nel sopraggiungere volitivo della mia adolescenza trattenendo però il mio destino, secondo la propria natura, nell’orbita flessibile del disincanto.

(estratto dal primo volume)

©Andrea Rossetti

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