L’UOMO DISINCANTATO – Marguerite (1)

In un primo momento, con la stessa naturalezza di quei densi chiarori lunari che dall’alto di una notte perfettamente limpida e stellata sommergono a perdita d’occhio la campagna e i frutteti, semplificandoli in un preciso arabesco di sagome nere, la mia preferenza era caduta subito sulla scherma, che a conti fatti sarebbe stata anche la scelta più logica per uno che era mosso da ideali grandiosi e aristocratici come i miei. Peccato però che una predilezione tanto definita e carica di belle promesse fosse anche oltremodo effimera per via del suo movente principale, che davvero non avrebbe potuto essere meno sviante. Per farla breve: mi ero infatuato, limitandomi ovviamente a cullare quel desiderio tra le altre mie aspirazioni favolose, quindi senza mai dichiararmi o anche solo accennare all’allusione di un approccio, della figlia di una coppia di amici di famiglia, i coniugi Dufond, di origini belghe ma naturalizzati inglesi, che si chiamava Marguerite e aveva due o tre anni più di me; la sua grande passione era, appunto, la scherma, e in particolare il fioretto, e io speravo di poterla frequentare abitualmente col pretesto di condividere con lei lʹamore per lo stesso sport. Ricordo bene che i suoi genitori erano molto orgogliosi dei rapidi progressi che faceva in pedana e che soprattutto sua madre ne parlava spesso, distogliendo di tanto in tanto lo sguardo dall’interlocutore del momento per rivolgerlo verso di lei, almeno quando si trovava nei paraggi, reclinando appena il capo lungo lo scivolo di un sobrio sorriso e riprendendosi poi quasi subito, con un lieve movimento del collo, simile alla reazione meccanica che si ha per la puntura di un insetto, affinché la sua materna fierezza di borghese non desse l’impressione di degenerare in una ben più volgare vanteria. Eppure, nonostante l’evidente buona volontà che avevano dimostrato dandosi da fare per integrarsi negli atteggiamenti, nell’educazione e, soprattutto, nel modo di pensare degli inglesi, c’era nei coniugi Dufond un irriducibile residuo di goffaggine campagnola, a partire dalla condivisione dello stesso tono di voce lamentoso tipicamente belga, dal quale Marguerite – che in ogni situazione si regolava invece facendo affidamento sulla disinvoltura di una grazia così piena da poter essere paragonata solo a quella dei roseti al tempo del loro primo fiorire e che, senza peraltro concedere mai nulla alle frivolezze dell’esibizionismo, parlava con una tale, limpida sonorità da dare l’impressione a chi l’ascoltava di accingersi a cantare – pareva  essere stata preservata, come se non si trattasse che di una specie di tic fuori dal controllo della volontà al quale soltanto i suoi genitori, loro malgrado, non potevano fare a meno di sottostare. In breve tempo mi ero convinto che quel solco, tanto sottile quanto profondo e definitivo, rilevato tra i due Dufond e la figlia dalla mia ossessiva sensibilità alle cose, dovesse avere a che fare con la circostanza che lei, essendo nata alcuni anni dopo il trasferimento della famiglia in Inghilterra, non conservasse in realtà alcun retaggio delle sue origini belghe, a parte ovviamente il cognome, avanzo solitario di un altro destino abbandonato a se stesso da sempre, e quel lieve accento vallone incastrato appena nella precisa scorrevolezza del suo inglese fino a sembrare quasi un vezzo, la civetteria esotica di un’elegante ragazzina londinese.
La verità, però, era che credevo di essermi innamorato di Marguerite unicamente perché alla mia età non avevo ancora la più pallida idea di cosa fosse l’amore e, affidandomi alle sole rappresentazioni letterarie di quel sentimento, mi limitavo una volta di più a immaginarlo, con la tipica presunzione che ha l’inesperienza allorché benedice le scorciatoie che conducono al dilettantismo.
Quando potevo cercavo con insistenza il suo sguardo (che a onor del vero lei quasi sempre mi negava) perché, a differenza di quelli delle sue coetanee, non conteneva mai alcuna traccia di certe odiose simulazioni della gentilezza che puntualmente finivano poi per rivelare tutta la loro futilità, trasformandosi non di rado anche in sfrontati ammiccamenti o addirittura in aperte prese in giro, soprattutto quando da un contesto più o meno privato si passava a stare in comitiva con gli amici e le amiche. Lo sguardo di Marguerite era invece sempre e soltanto fiero, raccolto intorno alla stessa luce rigorosa che aveva quando, dopo un assalto vittorioso in pedana, si sfilava la maschera protettiva e, scuotendo appena la testa per aggiustare i capelli biondi sulle spalle sfumando il bianco della tuta con le loro punte color del miele, lo rivolgeva agli spettatori appena prima di ritirarsi negli spogliatoi.
Aveva un passo lieve ma regolare, un piede dietro l’altro, a misura di tallone, niente a che vedere con l’atletica per esempio, in quanto lontanissimo dalle lunghe falcate della corsa come pure dall’immedesimazione nella distanza che è tutt’uno con l’incedere dei marciatori. Tuttavia non lo si sarebbe potuto definire nemmeno una specie di danza visto che il suo senso del ritmo cominciava e si esauriva senza fronzoli o ricercatezze nella normalità disciplinata di un ordine naturale. D’estate poi – quando era più facile che le tenesse un po’ scoperte – mi piaceva osservarle le gambe: avevo infatti la convinzione che gran parte del segreto della sua abilità col fioretto si trovasse proprio nel levigato avvallamento posto tra la tibia e il polpaccio e quindi nei morbidi incavi, che mi facevano pensare a miniature di archi rampanti, dai quali la sua pelle si lasciava modellare alla perfezione lungo il tallone e fino alla caviglia, là dove i malleoli, come piccole mandorle sgusciate, ne chiudevano con estrema esattezza lo slancio; ed era appunto tra i vortici e le onde di quei muscoli tesi che i tendini della mia schermitrice, quasi tagliando la sua stessa carne, scattavano a ogni assalto vittorioso. Per una sorta di strano contrappasso però, e a dispetto di un interesse tanto vivo e accurato, la già confusa infatuazione che nutrivo nei suoi confronti, nel frattempo sempre più provata dagli eccessi contemplativi che le imponevo, aveva finito per diluirsi in una lunga indagine estetizzante che per la verità sarebbe stata più adatta a un disegno anatomico di Leonardo piuttosto che ai dettagli vivi della nudità di una bella ragazza. Ricordo bene quanto mi piacesse scoprirla nelle infinite forme di relazione che il suo corpo in movimento stabiliva con lo spazio, fantasticando di lei come se fosse uno di quegli schizzi a matita nera, carboncino e sanguigna di Michelangelo che mi lasciavano a bocca aperta ogni volta che li vedevo riprodotti sui libri. Giudicavo un vero peccato, per esempio, che lei non incrociasse più spesso le braccia dietro la testa, raccogliendo poi i capelli sulla nuca a mo’ di ciuffo di grano fresco di mietitura con quella leggera tensione delle mani e dei polsi che lasciava emergere sottopelle l’intreccio azzurrino delle vene; o che, facendolo, non rivelasse abbastanza il candore cilindrico del collo lungo e sottile sul quale le vertebre cervicali giocavano in un’alternanza di bassorilievi e scanalature; o, ancora, che una maggiore tensione dei muscoli pettorali durante il movimento della respirazione non sostenesse a dovere, vibrando così come avrebbe fatto un chiaroscuro di Rembrandt, i bordi appena accennati di quel petto la cui femminilità era ancora di là da venire solo perché, quando non era in pedana, Marguerite, a causa di una vera ossessione per la compostezza che con ogni probabilità traeva origine dalla rigida educazione cattolica che aveva ricevuto, si ostinava a rinunciare alla libertà e alla profondità del suo respiro, alla pienezza di quel riverbero danzante sopra il diaframma, pur di indossare senza motivo il reggiseno, anche a costo di spezzare il ritmo perfetto dell’arco della schiena, sotto le scapole che parevano i boccioli di due piccole ali, e di lasciare che la volgarità dei segni degli elastici incidesse la sua pelle tenera.
A un certo punto, però, e tra l’altro nel rapido volgere di pochi mesi, era successo qualcosa che aveva definitivamente sfibrato quella nostra relazione invisibile, tanto complessa e profonda quanto imbalsamata (che oggi considero una delle prime manifestazioni embrionali del disincanto), creata da me nel corso di lunghi silenzi immaginifici sulla scorta dei timidi atti di voyeurismo ai quali mi lasciavo andare ogni volta che la vedevo, e ispirata da lei con le episodiche apparizioni che faceva nella mia vita, sempre del tutto indipendenti dalla mia presenza, e che per la verità io nemmeno ricercavo, compiacendomi invece che capitassero lì per lì, tanto per sperimentare l’illusione del batticuore.

(estratto dal primo volume)

©Andrea Rossetti

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