L’UOMO DISINCANTATO – Londra

In uno dei miei ultimi giorni di lutto tradizionale, prima cioè che questo diventasse a tutti gli effetti un lutto disincantato, capostipite e prototipo di ogni mio sentimento successivo, non avendo granché da fare e sentendomi d’altra parte anche particolarmente arido quanto a voglia di sperimentare forme inedite di dissipazione del mio tempo (come per esempio prendere confidenza con l’ennesimo solitario usando ancora una volta le carte napoletane, che preferivo da sempre alle francesi per via del disegno antico delle figure simile a quello così enigmatico dei tarocchi, o continuare a cercare nei grandi volumi dell’Enciclopedia Britannica di mio padre le riproduzioni di quadri antichi e moderni raffiguranti donne nude o seminude, in quanto all’epoca, non avendo a disposizione soldi miei da spendere per acquistare film e riviste di un certo tipo, non potevo permettermi di fruire della pornografia vera e propria), ero uscito sull’unico terrazzino del nostro appartamento che non dava sul cortile interno del caseggiato, una sottile escrescenza pensile di ferro e cemento, rivestita in graniglia e geometricamente protesa sul vuoto domestico di un qualsiasi penultimo piano, là dove tutt’intorno, oltre lo scivolo grigio dal fondo sconnesso che si conficcava come una stilettata nel costato del garage condominiale, c’era da osservare soltanto la vivacità quotidiana di uno spicchio di mondo, perfetta riproduzione in scala del mondo intero, e il brulicare, quasi statico nella sua sterminatezza, delle vite comuni, mentre alcuni frammenti di conversazione, filtrati dal vocio generale, traevano per puro caso un’evidenza esclusiva dall’acustica spigolosa di quei luoghi senza tuttavia che nessuno in particolare riuscisse a emergere fino in fondo per davvero.
Di fronte a me c’era un paesaggio frastagliato nel quale coesistevano il grande alveare tetragono in cui vivevano i nostri dirimpettai e, seguendo con lo sguardo una minima traiettoria parabolica, il piccolo sprazzo ordinato di verde pubblico antistante una comune via laterale di scorrimento; questa, senza interrompersi ma dando anzi l’impressione di volersi protrarre e sconfinare nello spazio come certe strade scozzesi a nord del nord del mondo che, a partire da un centro abitato, all’improvviso cominciano a scorrere perse e rettilinee in mezzo al nulla, a un certo punto curvava per due volte a sinistra, simile a un pezzo di stoffa appena inciso con le forbici e quindi strappato a mano con un gesto rapido e sicuro, adattando così il suo doppio senso di marcia prima alla svolta e poi all’immissione grazie alle brevi gallerie a senso unico e contrario ottenute dai due archi aperti sotto il piccolo ponte della ferrovia urbana che così, coi suoi grandi blocchi di roccia grezza, resi bruni ormai dall’accumulo sulla loro superficie di ogni tipo di residuo dell’inquinamento dell’aria e aggrediti da infiltrazioni e velature di muschi e di licheni, ricordava un acquedotto romano visto con l’occhio indulgente e fantasioso di un disegnatore di fumetti. Più avanti, attingendo alla memoria e all’immaginazione, potevo percorrere col pensiero le strade a poco a poco sempre più eleganti della zona commerciale, coi loro marciapiedi perennemente bagnati dalla pioggia o anche solo dall’immancabile strato di umidità londinese e lastricate con grandi rettangoli di pietra color antracite. Mi pareva di vedere davanti ai miei occhi i negozi e le boutique tra marmi, tende e insegne scritte in un turbinio di caratteri tutti diversi ma sempre perfettamente alla moda; e poi la gente che osservava le vetrine così come ci si rivolge verso i ciechi, con lo sguardo nudo e disimpegnato, senza rendersi conto che l’intimità più autentica di chiunque è svelata più e meglio da ciò che è incline a guardare quando va a fare shopping che da una confessione dettagliata di sua madre.
Intanto aveva cominciato a piovere forte e io ero quindi rientrato in camera mia, mi ero sdraiato sul letto e avevo iniziato a pensare intensamente alla finestra che stava all’altro capo della stanza, in modo da poter sentire e trattenere meglio a occhi chiusi ogni particolare dentro di me. Durante quella mia passeggiata ideale sotto la pioggia, le cose, attraverso la stoffa semitrasparente delle tendine, avevano finito per prendere così un aspetto lattiginoso e la consistenza sfarfallante che hanno gli aloni.
Ascoltavo più con la mente che con l’udito il ticchettio della pioggia sopra gli ombrelli aperti e il fischio ovattato che essa produceva picchiando sulla strada e mi chiedevo soprappensiero quante fossero di preciso le gocce che proprio in quel momento si stavano prima infrangendo e poi ricongiungendo in precario equilibrio sulla superficie degli impermeabili di poliuretano; e sentivo le automobili sfrecciare, circonfuse dalla tipica sonorità intimistica e malinconica che producono sempre le macchine quando attraversano la pioggia, mentre i tergicristallo tratteggiano iridi scure sui loro parabrezza dardeggianti.
Nel compiere col pensiero quel viaggio ideale ma tutt’altro che privo di concretezza, provavo un conforto autentico, distintamente lontano da ogni forma di suggestione, qualcosa di simile a un caldo e piacevole formicolio interiore, come se dentro di me si fosse sciolto all’improvviso il nodo di un laccio emostatico: l’effondersi vagamente brumoso tra le mie percezioni della strana pace endorfinica e distaccante del disincanto mi trasmetteva la stessa sensazione, a metà fra il dolore e il sollievo, del flusso del sangue quando, dopo un arresto forzato, riprende a scorrere in un arto e aveva anche poi il suono del mare che respira calmo sulla spiaggia. Ed ecco che il rumore, al tempo stesso reale e immaginario, dei tacchi delle donne eleganti sui marciapiedi delle vie più pittoresche e aristocratiche già si andava spegnendo lungo il declivio di un quartiere periferico e popolare e, come nella metamorfosi di una similitudine, lasciava venire a galla l’eco del ticchettio della pioggia sopra i sacchetti della spazzatura inzuppati d’acqua e rovistati con stanca frenesia e in ordine sparso sia da ragazzini, il più delle volte riuniti in piccoli gruppi, che da adulti, uomini e donne, invece sempre solitari, tutti però con la stessa epidermide pressappoco castana tatuata in profondità da grumi di fuliggine di varia consistenza e grandezza che spuntava dagli abiti sudici. I più attrezzati andavano in giro spingendo dei vecchi passeggini per bambino così da non dover essere costretti a lasciare ad altri quegli inattesi ritrovamenti particolarmente ingombranti ma in prospettiva rivendibili a uno dei tanti rigattieri londinesi di bocca buona dopo essere stati rimessi in sesto alla meno peggio; e io, mantenendo gli occhi ben chiusi, potevo vederli tutti, mentre rovistavano nei secchi della spazzatura, sporgendosi fino in fondo e rimanendo in bilico con le sole gambe e i piedi di fuori che non smettevano mai di muovere in modo buffo e sincopato per mantenersi in equilibrio sul bordo, all’altezza della vita, ed evitare quindi di cadere tra i rifiuti come sarebbe senz’altro successo se invece che nella loro vita vera si fossero trovati fortunosamente in una slapstick comedy dell’età del muto.
Da quei bidoni tanto accuratamente perlustrati saliva al cielo l’intera gamma delle sonorità da sfregamento conosciute e sbucavano parti di membra di esseri umani che non facevano altro dalla mattina alla sera, mentre qua e là dei veri barboni, accartocciati dentro quelli che erano stati una volta degli scatoloni da imballaggio, tentavano di non lasciarsi indurre in tentazione da un risveglio comunque meno promettente del pur variamente importunato sonno in corso. Sulle loro caviglie e sui piedi, spesso privi di scarpe, che lasciavano sbucare da quei cartoni, la pioggia luminosa rimbalzava in modo diverso dal solito, senza slancio, con uno sfinimento che quasi non faceva rumore ma che invece disegnava a spruzzi, nell’aria rancida e grassa, delle piccole aureole ribelli di luce stagnante, scivolate furtivamente dalle teste dei santi fino ai piedi dei clochard. Minute cataratte d’acqua piovana scendevano dal bordo spiovente del coperchio dei vari secchi della spazzatura e andavano a colpire i cartoni dei senzatetto producendo un suono scarno e irregolare. Quelle creature in invisibile esilio si interpellavano tra di loro quasi solo a suon di fischi e di liquidi borbottii di fonemi e si rivolgevano invece al mondo esterno, in qualunque veste questo si presentasse, sempre con un naturale impaccio, bisbigliando cioè quel che avevano da dire in prossimità, quando non proprio dall’imboccatura, dei loro vicoli prediletti – quelli più angusti e secondari – o da una delle tante nicchie cieche e fortuite incise a casaccio dalla sciatteria architettonica dell’edilizia popolare sui fianchi della grande quinta metropolitana; e lo facevano comunque a partire dalla sincerità dell’abitudine ai loro volti lividi, che potevano essere già maculati da un’acquisita e ormai cinica dimestichezza con la sporcizia oppure ancora ben lisci e uniformi, vergini, in virtù di un desiderio ribelle di riscatto a prescindere, fondato in sostanza sull’assistenza confortevole e gratuita offerta dai bagni pubblici della capitale del regno, notoriamente i migliori dell’età moderna e in generale secondi solo a quelli, per definizione ineguagliabili, dell’antica Roma, mentre sussurravano al nulla ambiziose idee immaginarie come fossero nenie sciamaniche o lallazioni infantili, lasciando aperte sulla strada, e quindi sul mondo, porte e finestre ideali fatte solo di pioggia.
Le grate dei tombini, al di là delle quali i topi di città perfezionavano tattiche di sortita sempre più efficaci e raffinate, erano quasi tutte ostruite da grumi di foglie morte e da rifiuti fradici mentre sullo sfondo alcuni sprazzi ameni di verde urbano, protetti dagli alberi lustri con le loro fronde gocciolanti simili a dei flabelli pontifici, parevano liquefarsi, come sbavature di trucco tutt’intorno a degli occhi piangenti, tra sparse sedute di pietra la cui forma richiamava vagamente quella di un triclinio.
Ben presto, però, in questo intimo avviamento sentimentale al disincanto messo in moto con impietosa consolazione dal dolore e dal lutto per la morte di mia madre, il mio sguardo interiore era tornato sull’altra Londra, la grande ameba rutilante che stava già nascondendo e digerendo per fagocitosi l’immagine batterica appena dischiusa dai suoi bassifondi color grigio muschio.
L’invincibile ameba – sogno proibito di Napoleone e di Hitler almeno tanto quanto la Russia – aveva la stessa, confortante consistenza da polisaccaride di un gigantesco budino: da secoli essa non faceva altro che tremolare, ricca, cremosa, dolciastra, morbidissima eppure viscosa, del tutto inetta allo scioglimento. In definitiva, Londra dissimulava la vitalità vorace e predatoria dell’ameba che era dietro l’aspetto confidenziale di una panna cotta. Tra i suoi flutti appiccicosi potevo intravedere dentro di me il lussureggiare screziato delle sciarpe di cashmere e gli spostamenti altalenanti delle borsette da passeggio sui fianchi molli delle signore e su quelli dal disegno asciutto e dal moto nervoso di ragazzine in fiore con gli occhi verdi o blu; e ancora le vispe frangette alla Audrey Hepburn, scolpite come tante cornici sopra la fronte delle donne, o le ondulate acconciature alla Grace Kelly, galleggiare su un vortice festoso di pacchi e di coloratissime buste da shopping. Qua e là spuntava anche l’ossuta rigidità vittoriana di qualche portiere d’albergo, costretto nella sua divisa ad alamari e rassegnato, almeno fino al raggiungimento dell’età pensionabile, all’idea di considerarsi un ibrido tra un ussaro e un capostazione; ma era soprattutto sulle scarpe da uomo che Londra – quella dei miei ricordi del suo sempiterno al di là – camminava spedita: un cicaleccio frenetico di suole e di tomaie, firmate Crockett & Jones, Alfred Sargent, Fricker, George Cleverley e Cheaney & Sons. E poi ecco finalmente Trafalgar Square, con la sua immane colonna corinzia di Horatio Nelson, che, obiettivamente, essendo nato in un microscopico villaggio del Norfolk, di corinzio aveva più niente che poco. La colonna è talmente alta che, come si dice tra gli attori, buca lo schermo – terreno e celeste che sia – in qualsiasi condizione atmosferica si trovi, sempre illuminata da un’anomala macchia emergente di luce solare; ma la statua dell’ammiraglio, costantemente corrosa dall’acidità implacabile degli escrementi dei piccioni, deve invece sopportare su di sé, tra una pulizia e l’altra, lo stesso color crema fuligginoso della corteccia dei salici piangenti.

(estratto dal primo volume)

©Andrea Rossetti

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