Col trascorrere dei giorni Peter si rese conto che David Bowie, nonostante fosse formalmente il direttore artistico del comitato per le celebrazioni del centenario del torneo, se ne stava spesso seduto in disparte a fumare una sigaretta sulla veranda, di fronte alla pioggia che cadeva ininterrotta da ore, indifferente al via vai di persone che, come prive di massa e di attrazione, lo avvolgevano scivolando lungo percorsi variamente ondulati senza mai descrivere un’orbita capace di reciprocità. Fin dall’inizio si era trovato molto più a suo agio coi giovani membri temporanei del circolo, i contestatori che si erano riuniti nel Club dei Porno-Malinconici, coi quali non di rado lo si vedeva intrattenersi e scherzare, mentre aveva sempre parlato molto poco con tutti gli altri, compreso Peter, limitandosi a osservarli, senza simpatia né ostilità, con lo sguardo neutro e curioso dello scienziato. Bowie scrutava ogni loro espressione e movimento cercando forse di indovinarne le intenzioni recondite e ricostruendone i retroscena con la tipica fantasia non referenziale del musicista, abituato a pensare per suoni e quindi a spiegare ogni cosa più come si fa con le vele di una barca quando sale il vento buono che con un concetto allorché lo si colloca nell’ambito di un discorso. Per certi versi li guardava come se li stesse spiando ma senza il disagio sottinteso nel proposito malizioso di un voyeur bensì col freddo raccoglimento di chi osserva qualcosa per studio attraverso la lente di un microscopio. Ad acuire quella strana sensazione in tutti i membri del comitato contribuiva senza dubbio il suo sguardo asimmetrico, scisso tra l’occhio destro, che era normalmente azzurro, e quello sinistro, che invece sembrava quasi nero. A causa di un pugno che aveva ricevuto ai tempi della scuola da un compagno di classe durante una lite romantica scoppiata per amore della stessa ragazza, il Sottile Duca Bianco (come all’epoca amava farsi definire) si era infatti ammalato di midriasi permanente, una paralisi del nervo costrittore della pupilla che gli impedisce di regolare la quantità di luce che può entrare nell’occhio e che i tennisti conoscono molto bene giacché a volte viene loro procurata dal trauma di uno sciagurato impatto con una pallina. Proprio questo suo occhio scuro e dilatato dava appunto a tutti l’impressione della lente di un microscopio e quindi il sentore mortificante della distanza abissale che passa tra l’interesse e la partecipazione, tra un’empatia emotiva a tutto tondo e una curiosità sperimentale che agisca invece a partire da un punto di vista esterno ai fenomeni e alle circostanze che si trova a osservare.
Dopo essersi persuaso una volta per tutte che l’eccentricità del punto di vista in cui Bowie perseverava di fronte alle dinamiche ideali e sociali del comitato – del quale, sebbene a seguito di un colpo di mano non proprio ortodosso della “Rugosa”, era stato appunto nominato all’unanimità direttore artistico – avesse un suo carattere assolutamente innocente e analitico e quindi privo di quell’ostilità preconcetta che altri davano per scontata e che sarebbe stata verosimile solo in presenza di un conclamato coinvolgimento sentimentale, Peter era giunto alla conclusione che ci fossero sufficienti garanzie per riconoscergli – come se si trattasse di una sorta di cauta apertura di credito da parte di una banca nei confronti di un’azienda – un’attrazione indefinita, non incompatibile in futuro con un vero e proprio interesse personale.
Mentre gli si avvicinava poteva vedere – nella vigile incompletezza del suo sguardo delineato alla perfezione come quello di un grande attore dopo una virtuosa seduta di trucco – il mondo intero, in tutto simile però a un acquario di coltura destinato alla vita elementare, a una miriade frenetica di organismi unicellulari, alghe e protozoi, affamati di batteri o, più in pace, soltanto di acqua salata e di splendida luce.
Dentro agli occhi del Sottile Duca Bianco in verità non c’era niente. Davvero niente di niente. Per la precisione niente da dire, da raccontare o da fare, niente da cambiare; c’era solo la noia, la sopravvivenza disidratata, un blando caracollare di vaghe nullità semoventi – cioè la gente – tra inutili amarezze e risate isteriche. Questa era la vita che suo malgrado raccontava a tutti in silenzio: un dolore senza tempo che il tempo raffredda. Assai meno nobile dei rifiuti che galleggiano in fondo ai bagni pubblici delle stazioni o dei bar più malfamati, quelli dove l’igiene è sempre eventuale, quelli dove i tossici tirano le cuoia e gli ubriachi vomitano l’anima dopo il loro – perlomeno onesto – brandello malato di quotidiana ebbrezza. In quegli occhi c’era tutta la vita che nessuno scrive, che tutti sniffano senza fiato, che tutti svendono dal tempo inesauribile dei saldi d’inizio stagione, che ogni dio deride dall’alto, ininfluente; la vita condita soltanto dal sapore di una retorica sociale o teologica per amor di resistenza, solo perché ogni uomo è inadeguato alla sua speranza.
“L’uomo ha un prezzo – aveva mormorato un giorno di sfuggita David Bowie a Oedipa Boot, che forse solo casualmente gli sedeva accanto – e la speranza migliore è in fondo sempre quella di non averne alcuna. Ecco perché nasce opportunamente delusa, ecco perché si ha bisogno di ubriacarsi, ecco perché la droga è una benedizione che sale dalle pietose profondità dell’inferno. Mi creda: il miglior rapporto possibile tra gli esseri umani è quello che intercorre tra la prostituta e il cliente. Esso infatti è onesto, chiaro, terso, meravigliosamente definito a priori. Cartesiano nella sua semplicità. Nessuno si aspetta niente di più di quel che avrà. La parola chiave è: trasparenza! Oggettività brutale magari ma indubbia, rotonda, senza fraintendimenti. Oggettività che è anche il massimo splendore di una resa necessaria. Resa che nell’assenza tutta chimerica dell’onore trova infine la ragione del suo poter essere almeno e certamente non disonorevole. Perché proprio nulla muterà domani, giacché anche ieri niente d’importante doveva cambiare”.
(estratto dal secondo volume)
©Andrea Rossetti