Si misero a sedere su una panchina di pietra, quasi al centro perfetto del parco, Peter in camicia bianca e pantaloni di lino, la Lady in abito lungo di lino chiaro, quasi trasparente, cintura da vestale ai fianchi e sandali color tabacco. Lei non voleva che fumasse (cosa che, essendo un tennista professionista, avrebbe dovuto comunque evitare), ma glielo chiese a modo suo, in silenzio, sorridendo fedele all’eleganza scritta nel suo patrimonio genetico, limitandosi a indicargli cioè, lungo l’arco di tempo che le era necessario per conquistare l’assoluta bellezza nervosa di un breve sorriso, la pelle appena abbronzata del suo collo, vicino a quella gola che il fumo avrebbe fatto soffrire.
Peter cominciò a parlarle disordinatamente dei preparativi delle celebrazioni per l’edizione del centenario del torneo di Wimbledon, coincidente col giubileo della Regina, e del suo proposito di parteciparvi, se necessario anche disputando le qualificazioni. Lei era rimasta a lungo ad ascoltarlo, lasciando girovagare qua e là nel frattempo una serie interminabile di brevi sguardi sorgivi e azzurrini, sgombri dai segni di intenzioni che, indipendentemente dalla loro indole benevola o ostile, li avrebbero in qualche modo forzati ad aguzzarsi, precisandoli in funzione di un interesse qualsiasi e della sua opportunistica necessità di chiarezza; finché, scegliendo a caso l’attimo giusto e con l’assoluta certezza di non avere alcuna ragione per farlo, aveva deciso di reclinare a tradimento la testa sulla sua spalla: d’un tratto i suoi capelli si erano sparsi addosso a Peter come una nuvola d’oro profumata di spezie indiane obbligandolo a poco a poco a incrinare il tono della voce sino a lasciarlo scorrere via nel mormorio inevitabile di un debito d’aria – che era poi come una genuflessione – mentre anche il suo sguardo infine si piegava al dono generoso della curva, appena scoperta nell’ondularsi astuto della scollatura, del seno della Lady.
Lui le afferrò con tenerezza una mano, ne seguì con l’indice il merletto delle vene sottopelle, godendone col tatto l’arrendevole morbidezza; e fu esattamente in quel momento che, suo malgrado, suppose per l’ultima volta in vita sua di essersi innamorato.
L’amore – si sa – ci governa carezzando, come il volo alto o radente di un falco pellegrino, copre indifferentemente distanze buie e luminose, imperversa prossimo come una danza o echeggia mimetizzandosi nella musica impercettibile di una festa lontana, assottiglia coscienza e dignità fino a farne un’equazione che poi ostinato risolve sempre uguale a zero, è il serpente che si morde la coda, perennemente lanciato all’inseguimento di se stesso, da guardia e da ladro, smodato nell’essere incessante e temperante nel non estinguersi. L’amore si nutre, si disseta, avvolge, annusa, penetra, ghigna, sorride, brancola, dirige, lusinga, colpisce, avvampa, cova, piange, spegne, combatte, si arrende, culla, ridesta, è la tregua e la guerra. Esso nel volto, nel corpo che desidera, talvolta con tale intensità da sciogliersi nell’isteria capricciosa del pianto, riconosce e conosce se stesso fino a rischiare l’arsura assoluta dello specchio, il compiacimento della frugalità e della privazione, l’ossessione dell’ebbrezza e dell’estasi. E tuttavia l’amore sa essere anche estremamente consequenziale, addirittura fino a darsi torto, fino all’estremo sacrificio della contraddizione, fino a comprendere l’odio, nella totale ambiguità di una vera fratellanza elettiva.
(estratto dal secondo volume)
©Andrea Rossetti