L’UOMO DISINCANTATO – Le amiche del cuore (8)

Nel gruppo delle amiche del cuore l’unica che sapeva cantare e che aveva davvero una bella voce si chiamava Temperance; e infatti io l’avevo soprannominata l’usignolo della comitiva.
Incontrandola oggi, avrei riconosciuto in lei una perfetta mezzosoprano romantica, come una di quelle che nell’800 avevano minacciato seriamente la sopravvivenza della chiave di contralto nelle partiture d’opera.
Temperance era molto magra, aveva un seno piccolo ma dal contorno ben delineato ed elegante, che già a quei tempi – quando neppure io avrei potuto essere incapace di elettrizzarmi, proprio come qualsiasi altro ragazzino della mia età, nel progettare ipotesi meravigliose a beneficio e decoro di quelli venturi – si lasciava disegnare con un’esplicita finezza maliziosa dalle stoffe degli abiti di ottima fattura che indossava e che, prima ancora dei modi naturalmente eleganti e della voce ben impostata, raccontavano la sua appartenenza a una famiglia dell’alta borghesia londinese. Portava sempre un paio di occhiali dalla montatura tondeggiante, scura, preziosa e piuttosto sottile – il suo modo di guardare un po’ a scatti, d’altro canto, che a volte poteva sembrare addirittura ammiccante, rivelava un sicuro principio di miopia – e aveva una carnagione pallidissima, lattiginosa, offesa spesso fino a un rossore bruciante dai raggi più aguzzi del sole; e poi due occhi limpidi color nocciola e sulla testa un’onda soffice di capelli lunghi, scuri come la brace mentre arde magnifica, quando non lascia nemmeno presagire i tristi e polverosi candori del suo tuttavia non lontano destino di cenere. C’era in lei l’incanto, non saprei dire se almeno in parte arrendevole oppure già del tutto ferocemente avverso, di un tempo di là da venire e che quindi allora non poteva che essermi completamente sconosciuto: quello in cui, un po’ a sorpresa e un po’ a tradimento, la forza benevola dei sogni si sarebbe travasata per intero nella verità straniera dei ricordi.
Devo confessare che mi sentivo molto attratto dal suo corpo tanto snello quanto ben fatto: amavo il suo piccolo seno appuntito, ancora dispensato da un uso sistematico del reggiseno, e poi le gambe, precise e aggraziate nonostante il lieve difetto che mostrava nel movimento dell’anca sinistra, una lieve zoppia che lei, comunque sicura di sé, non cercava in alcun modo di occultare.
Temperance era una creatura davvero indefinibile che sembrava non avere mai dei contorni sicuri; per certi versi mi ricordava molto da vicino la particolare inclinazione del mio sguardo che, quasi sempre privo di un vero e proprio oggetto, se ne poteva restare per ore in bilico e senza senso tra le mie pupille e il mondo circostante, animato dalla curiosità, contenuto dalla diffidenza e deteriorato dal disinteresse.
Ogni volta che la guardavo (cosciente del fatto che tra le amiche del cuore lei era l’unica che, senza avere nemmeno la necessità pratica di rendersene conto, era in cuor suo già perfettamente consapevole di essere spiata da qualcuno), veniva a galla in me l’eco spirituale di un’impressione contorta, di qualcosa che era comunque molto potente, crudo e ancestrale: un graffio dal suono cartilagineo, simile in un certo senso al dispettoso rumore del gesso vergine quando s’impunta e stride sul dorso di una lavagna; una specie di attrito mentale, assoluto, come quello che una notte, durante uno di quei miei sogni strambi che al risveglio mi lasciavano sempre nella mente una scia di vuoto in cui poi per l’intera giornata continuava a svolazzare, immersa in un buio diverso, la cognizione greve del crepuscolo, avevo udito – oppure visto, sebbene nel disegno inconscio di una sonorità – prodursi dall’incontro, rapido ma furente, tra la superficie policroma di una pala d’altare cubista, in effetti un po’ spiazzante a causa del soggetto insolito che vi era dipinto – l’estasi di Caino infine perdonato da Dio – e l’occhio bilioso e liquido, oramai incrostato da una cateratta museale, di un’anziana spettatrice dalla schiena ricurva, fatta apposta per accogliere l’intreccio ritorto delle sue mani gelate da una brina d’indignazione incrollabile e puritana, definitivamente esacerbata dalle blasfeme impertinenze della modernità.
Quando pensavo a Temperance contavo i tramonti che ci separavano dalla nostra forse impossibile ineluttabilità; noi che comunque eravamo già insieme da sempre, come sei pesci di lago e cinque pani di grano ancora tutti da moltiplicare: prendete e mangiatene tutti, dopo però che ce ne saremo andati, finalmente allegri perché giunti al punto radioso in cui profuma davvero di buono, di fertile, l’orto dei nostri ulivi! Ogni volta che la vedevo mi sussurravo senza sosta questo pensiero: noi due ritorneremo dal tuo seno neonato, pieni di grazia, perché io sono con te e tu sei proprio come ti amo…
Poi però la immaginavo donna, sempre appena claudicante e un po’ altera, e la vedevo in una camera d’albergo – lei mezzosoprano innamorata del suo tenore leggero coi baffi a coda di topo – tra gli stucchi d’oro zecchino della toilette, le tende di broccato, le lenzuola di seta, gli asciugamani di lino. E allora quell’eternità davvero troppo semplice che pure, con la tiepida indulgenza della brezza, passava tra i miei pensieri rendendoli sottili come i capelli di un bambino, continuava la sua corsa senza mai sostare a lungo presso di me. Per un po’ ancora – evitando di contraddirsi – si rifletteva nel canto talentuoso di quell’avvincente usignolo dall’andatura incerta lasciando che mi tormentassi con l’innocuo pallore di nuovi sogni; e per un vano momento poteva addirittura frenare la furia dell’onda schiumosa del disincanto quando batteva il piccolo scoglio salvifico che ci aveva raccolti; ma non durava che qualche pulsazione del cuore, perché eravamo simili alle lancette di un orologio fermo, che segna comunque l’ora esatta due volte al giorno, l’ora di un tempo perfetto in quanto privo di futuro, definitivamente sospeso su se stesso: Amami, Alfredo, amami quanto io t’amo, addio…

(estratto dal primo volume)

©Andrea Rossetti

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