L’UOMO DISINCANTATO – Le amiche del cuore (7)

La più bella tra le amiche del cuore aveva i capelli biondi, delicati come un lungo fascio di fili di seta, e si chiamava Caroline.
Pareva nata nel solco dell’intravedere di un passeggero solitario e senza particolari ambizioni dietro il finestrino del suo treno in partenza; un viaggiatore qualunque, completamente distratto dalla bella giornata di luce nella quale, sfocandosi in un vortice narcotico di rifrazioni, evaporava sotto i suoi occhi uno sciame mansueto di saluti vicendevoli, sia lievi di sovrappensiero che all’inverso vagamente importanti, attraversato appena dal capriccioso e a modo suo primaverile volteggiare a mezz’aria di un foulard color ocra, sottratto da uno sbuffo burlesco di vento al collo troppo sicuro di sé di una qualsiasi sconosciuta.
Il solo fatto di poterla vedere, già così perfetta nel corpo armonioso e longilineo di quella donna bellissima nella quale sin dalla nascita era destinata a trasfigurarsi, m’invogliava spesso a cercare il modo di procurarmi un’occasione qualsiasi d’incontro con lei, senza dubbio più che con le altre amiche del cuore, magari in un luogo ideale e del tutto innocente, posto a metà strada tra le nostre due vite; quanto meno per fare esperienza, attraverso di lei e sia pure nella forma impalpabile di una singola sensazione, di tutto ciò che, in quanto me stesso, mi stavo abituando a mancare per sempre.
Nel crogiolo dei pensieri che si affollavano nella mia mente, teneramente stordita dalla successione delle molte e diverse epifanie in cui una dopo l’altra, discontinue e frastagliate come altrettante scogliere favolose, si lasciavano percepire tra i miei sentimenti tutte le nuove passioni inaugurate dal sopraggiungere di quell’adolescenza che sin dall’inizio, nonostante la morbida discrezione di cui non può mai fare a meno l’essenziale fragilità che insidia naturalmente qualsiasi esordio, erano comunque già raccolte intorno alla meccanica dominante del disincanto, Caroline e il suo corpo snello e scolpito da nuotatrice – un incrocio perfetto fra la docile leggerezza del sughero e quella ben più dispotica del desiderio – arrivavano portando l’idea dell’odore fiero e robusto di disinfettante che satura l’ambiente sempre stranamente vasto delle piscine olimpioniche al coperto; potrei dire anzi che, solo guardandola, avevo l’impressione di immergermi all’istante nel segreto di una piramide olfattiva e sensoriale fatta di vapori di cloro, di sudore e adrenalina, di voci e di urla, confuse intorno a un irrequieto intreccio emotivo di entusiasmo e di incitamenti, degli echi assordanti e uniformi dello sciabordio nelle vasche, delle mille suggestioni acquatiche inflitte agli esiti dell’illuminazione artificiale dal costante ondeggiare cavernoso dei riverberi e, nel contempo, di quelle evocate invece dai caldi intagli della luce naturale nel loro zigzagare sopra i gorghi armonici e tra i liquidi spilli zampillanti originati dalle bracciate, sempre perfettamente essenziali, delle nuotatrici professioniste.
Mi sarebbe piaciuto chiederle che alfabeto servisse per decodificare il messaggio dei bagliori delle scaglie sul dorso dei pesci abissali che scorgevo nell’acqua troppo fonda dei miei pensieri, là dove lei era invece regina e sirena; e poi cosa avessero in comune quei guizzi accesi con le lanterne volitive che ogni notte ossessionavano d’insonnia la mia oscurità, prescienza – forse – di un’imprevedibile aurora boreale.
Olivia, la quinta amica del cuore, era una bella ragazzina creola dalla pelle armoniosamente ambrata, che mi faceva pensare alla morbidezza di un velluto prezioso intrecciato con fili d’oro e di bronzo, e aveva sulla testa un nido folto di capelli nerissimi e crespi. Spiccava sulla lattea sembianza delle altre – un piccolo gregge di agnelli pasquali vezzeggiati e nutriti di soli fiori così da ottenerne, nel giorno per loro fatale della grande festa, delle tenere carni fragranti di primavera, ma pure guastato dal protrarsi già straziante e maldestro del grigio madrigale ritmicamente troppo largo dei suoi macellai musicanti – come un cauto vortice ombroso di allegria marginale, scheggiato e quasi inconsolabile rispetto agli sciami frenetici della più comune spensieratezza.
Avevo anche scoperto che spesso, separandosi dalle amiche del cuore, faceva lunghe passeggiate da sola, in bicicletta, pedalando di buona lena fino a una vecchia casa oramai fatiscente che sorgeva in aperta campagna, nei pressi di un binario morto – e nella quale un tempo aveva abitato la famiglia, forse addirittura felice, di un casellante, antico custode di un passaggio a livello di cui però non rimaneva più alcuna traccia – per soddisfare forse il piacere privato e inaccessibile di rimanere in silenzio a guardarla, abbandonandosi alla vaghezza generosa del soprappensiero, allorché, specie d’estate, essa scontava sulle sue mura la furia dello zenit con afosa pazienza.
Tra le amiche del cuore Olivia era quella che consentiva al mio sguardo di intuire meglio le belle forme del suo corpo sotto i vestiti, lasciandosi anche sbirciare mentre, quasi apatica, si ravvivava il trucco del viso e lo smalto sulle mani e sui piedi seduta in equilibrio sul bordo del marciapiede e trasmettendomi sempre una graziosa sensazione d’inerzia, come se non avesse ancora capito cosa fare di una vita impigliatasi per puro caso nella propria stinta e lisa anestesia.
Mi sarebbe piaciuto essere lo smalto che usava sulle unghie, oppure il rimmel o il rossetto, così da farmi consumare e portare inutilmente da lei da nessuna parte nel giorno qualsiasi che almeno altrove, feriale e straniero, ci avrebbe senza dubbio dolcemente accolti.
L’immagine di Olivia, che per la verità, forse a causa delle inevitabili interferenze genetiche delle mie comunque molto blande inibizioni razziali, sulle prime mi era parsa meno interessante rispetto a quelle delle altre amiche del cuore, aveva invece assunto da un giorno all’altro un rilievo assolutamente decisivo nel contesto del disordine – una specie di frenetico e trasognato fermento staminale – in cui, dentro lo specchio dal quale ogni singolo mattino si riverberava fino a me simulando una debole moltitudine di attrattive, si crogiolavano le mie incostanti fascinazioni disincantate, nel momento in cui l’avevo vista chinarsi sul selciato per raccogliere con movenze brevi, tutte ispirate però da una tenerissima dedizione, come se si trovasse di fronte alle tessere di un antico mosaico perduto di inestimabile valore, quelli che invece per me erano solo i banalissimi frammenti di alcune fotografie dei miei genitori che avevo ripetutamente strappato – con una foga che oggi mi appare del tutto fuori luogo – durante uno dei frequenti accessi di rabbia ai quali all’epoca pretendevo ancora di lasciarmi andare, e che avevo gettato giù dal balcone come se si fosse trattato di una manciata di coriandoli di carnevale, confidando nell’ingenua speranza di frenare in quel modo l’ossessivo martellamento dei ricordi che allora tambureggiavano dentro di me, fra una tempia e l’altra, causandomi una disperata nausea spirituale.
Avevo visto Olivia sollevare la testa e concentrare il suo sguardo sulle ampie e prolungate traiettorie a spirale tracciate nell’aria da quei minuti pezzetti di carta; dentro ai suoi occhi c’era la stessa, cauta indulgenza incline a infiammarsi in qualcosa di molto simile all’allegria che anima l’aria quando per un istante è attraversata e scossa – una volta per tutte – dal volo effimero delle ali di una farfalla; e mi ero infine lasciato sedurre dalla struggente ma limpida passione che quella ragazzina mostrava nei confronti delle mie ombre, tanto dilette quanto ripudiate.
Tuttavia, poiché, come ho già detto, fin da piccolo ero affascinato dalla storia del primo impero francese e dalla vita fanaticamente temeraria di Napoleone Bonaparte, che ammiravo come una sorta di moderno eroe omerico, i suoi occhi da creola mi avevano subito fatto pensare all’imperatrice Joséphine; e così, in una delle tante, ripide ascese verso la fantasia che accordavo sempre alla mia cronica incapacità di restare concentrato coi piedi per terra, mi ero perduto, incrociando il suo sguardo (attrito e scintillio di due lame fin troppo affilate) a immaginare la piana di Austerlitz nel giorno della più grande tra le vittorie.
Sull’epico campo di battaglia la morte camminava allora come una bambina intenta a cogliere dei fiori. Eppure non era primavera: il vento non aveva quella tipica carne di polline, mentre la scarna fioritura sapeva invece di calce, di mattoni e di sangue, e procedeva spedita come la vita di chi, nell’andarsene, arriva. Il tamburino avanzava impettito e radioso sul campo di battaglia, là dove frattanto la morte continuava a camminare, innocente e stordita, come una bambina scema in cerca di fiori. Le zolle squassate, le bestie sventrate, il gran funerale di tutti, durante il quale dalle bocche mai così aperte dei cannoni fumigava – tuttavia fino al cielo – l’incenso sacrilego del piombo. Qua e là i sopravvissuti, gli sconfitti o i vittoriosi, malinconici indolenti senza dolore, perché l’aria intanto era tornata gentile, e della battaglia non restavano che sparsi sussulti lontani.
Ero stato assorbito troppo a lungo dal dispiegamento immaginifico di questa bella e smisurata distrazione; il tempo era trascorso in fretta e si era tutti oramai dolcemente sul far della sera; da un pezzo le amiche del cuore avevano rotto le righe per tornare al sovrappensiero domestico delle loro solitudini; e io non avevo colto l’opportunità che mi era stata offerta da quell’unico sguardo, senza alcun dubbio intimo e reale, che io e Olivia ci eravamo scambiati, dal basso all’alto e viceversa, rendendolo così solo l’ennesimo congedo dei miei sentimenti dalla vita.

(estratto dal primo volume)

©Andrea Rossetti

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