L’UOMO DISINCANTATO – Le amiche del cuore (3)

Mentre dal balcone spiavo di nascosto quelle ragazze e mettevo a fuoco il mio sguardo sul dilagare, così categorico e forte, della loro presenza, a un certo punto mi era tornata in mente, provvisoria come lo sfregamento sentimentale che insiste sempre lezioso tra la realtà e i desideri, o addirittura simile al confuso, nascosto frullare, su onde ora calde ora fredde di vento, del fogliame selvatico di una vecchia vite, da troppo tempo abbandonata a se stessa, sopra, intorno e attraverso le grate delle finestre della grande cucina fatiscente di un monastero in rovina, privato – morte dopo morte – di tutte le sue monache dall’aggressione secolare della modernità e dalla conseguente crisi delle vocazioni, la mia Miss Lilith Langtry, il grande amore ideale appena sfiorito che però a modo suo non era mai stato carente di fisica concretezza, nonostante l’avessi consumato di fatto soltanto nell’ambito immaginario dei miei sogni, lasciandolo infine appassire, come qualcosa di assimilabile – forse – all’ombra remota lasciata nella storia ufficiale dall’esistenza dei coloni di Roanoke, inesorabilmente caduco di fronte al rifluire imperioso dentro di me dei calmi acquitrini dell’indifferenza; e con disincantata nostalgia, per qualche istante ancora, mi ero commosso per lei. Perché dopotutto i veli della malinconia sono pur sempre un bel modo per aggirare lo scoramento e la noia: in giovinezza nei più riposti affetti, più tardi invece come convinzione, e poi, verso gli sgoccioli, sotto forma di una cara abitudine. E quel barlume era la mia ultima malinconia per lei – inevitabile amore dei miei sguardi – che stavo proprio allora abbandonando per il tanto a monte nostro mancato ricordo, poi invero a valle inesorabile e astemio, abbarbicato da lucertola immortale a rami stranieri, come una comune, qualsiasi partenza. Avremmo potuto diventare qualsiasi cosa, noi due, se solo avessimo accettato la necessità di esserci incontrati. Ma lei era stata e sarebbe rimasta per sempre soltanto bellezza, mio fertile entroterra, mio mare aperto.
La vicenda interiore che si era definita in me proprio a partire dal riconoscimento di Miss Lilith Langtry quale sua sorprendente e perfetta eroina, una volta spirata – nel caldo vortice ventoso di una vana consistenza senza rimedio – e discesa come una specie di sudario trasparente sul centro ancora ambiguo della mia nuova voglia – un verde, piccolo bocciolo di emozioni tremolanti – di osservare, di analizzare e di comprendere, a partire da una debita distanza che oggi potrei anche azzardarmi a definire scientifica, e quindi come tutto ciò che è scientifico anche puramente voyeuristica, l’essenza più intima e nascosta di quella compagnia di giovani femmine, nella quale si convogliavano festosamente verso loro stesse sia delle ragazzine ancora acerbe che delle quasi donne, quell’essenza cioè che, a dispetto della fresca luminosità delle singole apparizioni di ciascuna nell’unico cuore del loro essere insieme, rendeva senza alcun dubbio quella brigata un solidale e compiuto organismo vivente, così come lo sono una favola o una barriera corallina, aveva avuto così anche il merito, o forse soltanto la funzione, di farmi sperimentare qualcosa che, come un epicentro, essendo già del disincanto, gli andava anche rapidamente incontro. In buona sostanza, quando ci si sorprende a rimpiangere il passato, sempre con quella dovuta e appena demoralizzata passione che è la nostalgia, se si conserva la minima moralità dell’accortezza, non può che balenare – seduta stante – di fronte alla coscienza, simile al guizzo tagliato in due dal pelo dell’acqua, delle scaglie dorsali di un pesce in cui si specchi per caso la breve vanità del sole sotto l’effimera forma di un abbaglio, un’ammissione decisiva: un uomo disincantato non sente mai sul serio la mancanza di qualcuno, o meglio non la sente fino in fondo, sino cioè a quel grado di profondità in cui causa ed effetto si riconoscono finalmente l’un l’altro al di fuori dei nostalgici abbandoni; e ogni vera mancanza non è per lui che un ritorno alla stessa mancanza di quanto di sé si è perduto nel corso del tempo e di cui un incontro sorprendente o una circostanza felice, un’amicizia ormai dissolta o un amore archiviato, non sono altro che la segnaletica sentimentale, tanto quanto un profumo, una luce o un paesaggio. Perché non c’è alcuna possibilità di altruismo nella memoria.

(estratto dal primo volume)

©Andrea Rossetti

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