Il mio completo risanamento dalla sempre più esigente e tirannica ossessione per Miss Lilith, messo in moto in quattro e quattr’otto dalla difformità penosamente contorta con cui l’ultimo, drammatico sogno del quale lei era stata protagonista aveva compromesso una volta per tutte, rovesciandola in un unico abisso di amarezza, l’abitudine al piacere notturno che si era andata consolidando durante i tanti che l’avevano preceduto e che a quel punto si era però irrigidita nel rigore davvero troppo semplice di un puro automatismo e poi ancora oltre, eccedendo addirittura in una normalità esageratamente disinvolta e soprattutto nella movimentata reiterazione – immobile nondimeno a tradimento – dell’ennesimo imbroglio rivoluzionario, con quel suo ripetitivo e banale orbitare intorno alla propria, medesima verità, avendo solo l’accortezza di lasciarsi riflettere, rimanendo a una distanza sempre uguale, dallo specchio dell’inconscio posto ad arte come un radar nella cuna di uno dei due fuochi, per ritrovarsi ogni volta, e con fin troppo ovvia precisione, allo stesso punto di partenza dando a intendere però, in virtù delle animate suggestioni comunque offerte dal solito Signor Tempo, chissà quale magnifico progresso, si potrebbe assimilare alla conquista da parte di un ciclista solitario di un ripidissimo passo montano che, al termine della sua fatica, si trovi di fronte all’improvviso tutta la gioia gentile di discesa definitiva verso la valle, accompagnata dalla vista dilagante della più morbida e soleggiata tra le pianure del mondo.
Ogni pomeriggio, più o meno alla stessa ora, quel gruppetto primaverile di belle sconosciute se ne germogliava tutto radioso fuori dagli edifici che si affacciavano sulla via, ciascuno ispirato in qualche modo dallo schietto decoro tipico della migliore borghesia mercantile inglese, in genere piuttosto benestante e a volte (come nel caso dei miei zii) perfino molto facoltosa ma anche sempre frustrata nel profondo della sua anima sociale dal tarlo atavico di dover rimanere in ogni caso per nascita al di qua della soglia di inconfessabili ambizioni aristocratiche, costrette a priori a ripiegare sulla banale concessione di qualche sparso titolo di membro dell’Ordine dell’Impero Britannico, da condividere per giunta con una masnada di attori e di cantanti, schizzinosamente bollati senza eccezioni come sgradevolissimi compagni di banco; e poi andava prendendo la sua forma abituale a poco a poco, di arrivo in arrivo, tra l’apparizione di una ragazzina, che non sarebbe rimasta tale ancora a lungo, e quella di una ragazza, viceversa già bell’e fatta, con la stessa grazia imperturbabile e ornata dai doni migliori del tempo che possiedono certe danze tradizionali gitane, man mano che la vita degli altri, nel fluire anonimo delle sue consuetudini individuali, del molteplice e vivace andirivieni delle singole intenzioni, tutte arruffate insieme in matasse tanto capaci quanto velleitarie, tra partenze a perdere, circumnavigazioni spanate e traguardi forse raggiunti a volte per un puro caso, se ne discostava, come fa l’aria dai prodotti in sottovuoto, lasciandola in sospeso sulla pura luminosità di una favola muta; per restarsene quindi per ore giù in strada, senza fare mai niente di speciale, limitandosi anzi a gironzolare e a cambiare posto di tanto in tanto, contornato da uno sciame sonoro fatto di chiacchiere, canti e risate e immerso nella vaporosità gentile di un’aura che percepivo completamente assorta e ripiegata su se stessa, nella quale l’equilibrio del mio disincanto trovava di nuovo vita sufficiente e adeguata misura.
Tutt’intorno alla lussureggiante gioventù di quella piccola congrega di amiche che se ne stavano appartate nel bozzolo ideale della propria giornaliera recita a soggetto, tessendo in mezzo alla strada mille e mille contrappunti danzanti di lucore argentino, in genere sempre abbastanza fitti e tesi e che solo in alcuni, sparuti momenti, quietandosi nell’ipotesi pura di una nuova ripartenza, si ammorbidivano all’improvviso, attutiti da una mollezza seducente ma non ancora davvero sensuale, volteggiavano a loro volta le vite degli altri, ammassate come di consueto le une accanto alle altre, qui sostanzialmente identiche e laggiù invece accidentalmente diverse.
Una miriade di archi di tempo, aggettanti e levati a sostegno di un tetro ma ben lubrificato stereotipo che finiva per coincidere, a onor del vero senza troppi allarmismi né eccessive sbavature, con lo stesso attraversamento abitudinario della desertificazione delle singole esistenze, come se poi queste ultime fossero sul serio una molteplicità anziché la medesima condizione condivisa da molti e in parti a malapena diseguali. Esse – le vite altrui – continuavano a scontare da sole, tutte insieme e a poco a poco, la progressiva irriproducibilità delle abitudini, la sfioritura delle tenerezze, le attese appassite, la metamorfosi in cenere della brace primitiva del vigore, l’orizzonte che, nitido di fronte a loro da principio, le aggirava rapido alle spalle, nascondendosi poi nel ventre comodo e grasso della lontananza, e infine l’inutile ubriachezza estrema di ogni allegria superstite e i cento e cento incontri caduti e poi marciti sottoterra come frutti troppo maturi lasciati sugli alberi a stremarsi. Esse – le vite degli altri – sopportavano spedite, scivolando via inermi sul pelo della mandorla iconica di luce che faceva un po’ da guscio mistico alla presenza assolutamente centrale di quel gruppo luminoso di amiche del cuore, il loro viaggio breve alla volta della solitudine, verso lo smarrimento assoluto e fatale della sterilità; peraltro serbando sempre condivisa, benché sepolta dall’omertà, almeno la speranza della stasi mattutina di qualche ora di quiete.
(estratto dal primo volume)
©Andrea Rossetti