Dell’ottava – l’ultima – tra le amiche del cuore, nonostante mi fossi sforzato a lungo, non ero mai riuscito ad afferrare con esattezza il nome, sia perché le altre lo pronunciavano sempre troppo piano, quasi bisbigliandolo tra di loro come se si trattasse di un pettegolezzo, sia in quanto lei per prima evitava di farsi chiamare a voce alta, rimanendo nei paraggi di ognuna delle altre sette grazie alla stupefacente e naturale attitudine che mostrava – e che di certo non poteva sfuggire al mio matematico e solipsistico apprezzamento – per la creazione armoniosa nello spazio di geometrie costanti a partire dalla ripetitiva mobilità delle differenti distanze che di volta in volta la separavano da ogni singola componente della piccola brigata, oppure restandosene sempre defilata, se non addirittura proprio in disparte, ogni qual volta il gruppo – accadendo non di rado che, vivace e bizzoso com’era nel suo continuo sciabordare per la strada e sotto il mio balcone, si coagulasse intorno a un nuovo gioco, a una qualsiasi occasione un poco più estrema d’ilarità o ancora agli eccessi di un attimo breve di spensieratezza – si faceva troppo chiassoso e il tono della voce di ciascuna, sollevandosi all’unisono con quello delle altre, finiva per incastonarle tutte quante, non senza un afflato di consistente tristezza, nel vago e normale grigiore della vita di tutti i giorni.
Quando la guardavo di nascosto venivo preso dall’ansia di non farmi vedere e avevo perciò una discrezione maggiore rispetto a quella che riservavo di solito alle altre amiche del cuore, dalle quali anzi non mi dispiaceva affatto lasciarmi scorgere di tanto in tanto per essere poi in grado di studiare e interpretare le reazioni di ciascuna di fronte alla mia più o meno innocente impertinenza di coetaneo voyeur casalingo, arricchendo così di altri miti stupori e futili malinconie il mio ventaglio primaverile di idee sulla vita e sul mondo, all’epoca giocoforza ancora molto elementare e ristretto. Con lei avevo al contrario un modo di comportarmi che, se sulle prime pareva avere qualcosa in comune con quello quasi liturgico e del tutto impersonale tipico di un ricercatore nel momento in cui si lascia assorbire completamente dall’esperimento che più di tutti gli altri gli promette risultati degni di nota, proteggeva in concreto soltanto la mia intima confusione di adolescente sedotto da un istintivo desiderio di vivere – che a quei tempi era d’altra parte tanto eccessivo quanto sempre pervaso dall’amarezza sommaria di un’allegria a fondo perduto – subito frenato dalla non meno istintiva coscienza – tradotta di fatto nell’intima e quasi ornamentale percezione di uno scalino ripidissimo, anzi del più alto e scivoloso fra gli scalini, collocato dal disincanto, con la sua solita, inesorabile esattezza, su una specie di raccordo ideale tra il centro del mio stomaco e il perimetro del mio cervello – dell’assoluta e imperativa brutalità che con risoluta testardaggine divaricava a forza i lembi della ferita aperta dentro di me dall’ambizione coraggiosa di una domanda sentimentale messa ogni giorno di fronte alla prassi inesorabile e scialba della propria sutura, imposta dalla realtà quale garanzia a fronte del prestito di un’oggettiva sopravvivenza. Inconsciamente avevo per lei una considerazione particolare, come se fosse comunque più importante delle altre – non per bellezza o personalità ma proprio rispetto a me, al segreto frastornante della mia vita e al groviglio inesplicabile di attese che mi tenevo dentro, sospeso sulla nausea infantile per l’obbligo prevedibile di doverle prima o poi ritagliare, fatalmente sciupandole, in una lunga e reale teoria di battesimi di precisione – e non volevo perciò che si accorgesse di quella mia occhiuta presenza indagatrice che, sebbene protetta dall’anonima insenatura di uno qualunque dei moltissimi terrazzi scavati nei costati eleganti degli edifici che si affacciavano sulla strada seguendo una sparpagliata e fantasiosa progressione di principio, era sempre scandita in porzioni equivalenti di quantità d’interesse e distribuita con imparziale indifferenza – che perciò era anche massimamente colpevole di fronte all’egemonia morale che nella nostra occidua idea di bene e di male viene comunque attribuita a ogni singola scelta – tra ciascuna delle amiche del cuore, come se questo potesse in qualche modo offenderla e addirittura ferirla, dato che, fra tutte, lei era l’unica che non era mai riuscita a interpellarmi in musica e verità anche col suono del suo nome.
Questa mancanza, tanto precisa quanto persistente, sopravviveva dentro di me rosicchiando, col trascorrere dei giorni e delle settimane e poi, dilatandosi ancora e ancora, di interi mesi, qualcosa che nel contempo si faceva a poco a poco più arido e moribondo. Era una sentore molto preciso, simile per certi versi a quello dell’esfoliazione della pelle morta dei piedi che in oriente si usa affidare all’opera di un’orda di pesciolini tanto ghiotti quanto accurati e che in me avveniva invece proprio grazie alla vorace incapacità di chiamarla e, nominandola, di catalogarla infine come tutte le altre.
Ciò da cui quel vuoto mi liberava era in definitiva la naturale callosità dei sentimenti, cioè la loro essenza abitudinaria e ripetitivamente sempre meno viva che sedimentava a partire dalle facili ebbrezze dell’empatia e dai generici furori della loro vastissima retorica sociale; sentimenti che di conseguenza io poi non ero più in grado di sopravvalutare facendo ricorso alla solita scorciatoia di quegli slanci passionali che di norma possono nutrire in chiunque, e senza andare troppo per il sottile, l’irrazionale e istintiva volontà ineludibile di esistere comunque, destreggiandosi tra i brandelli di quel che sopravvive o che addirittura non è mai nato, oppure che è stato ben presto messo da parte o che è sfiorito da un pezzo nonostante un’infinità speranzosa di cocciute impollinazioni; slanci di una passione dolorosamente informe ma anche vivida in potenza come nessun’altra: quell’ordinario istinto di conservazione destinato comunque a rimanere incerto sino in fondo tra l’orgoglio dell’atto d’accusa e il rammarico del senso di colpa.
Lei era sorta potente davanti a me, sorprendendomi a partire dalla zona più periferica del mio campo visivo, proprio là dove lasciavo che facesse i suoi comodi la massima trascuratezza della mia disattenzione, dando per scontato che nulla d’importante, e ancor meno di così bello e di altrettanto graziosamente sottaciuto, come invece era lei, l’amica del cuore priva di un nome, potesse mai manifestarsi in quell’anonima nicchia, simile a un lungo binario morto disselciato tra le carcasse delle sue vecchie rotaie, riservata con sufficienza dal mio sguardo ai soli contorni delle cose e nella quale il perimetro più estremo della mia disattenta capacità visiva era solito ospitare le numerose e sterili comparse della quotidianità circonvicina e soprattutto gli insignificanti filari insanguinati di ginocchia infantili che – tra scomposti movimenti frenetici e suoni appena sillabati attraverso il filtro acustico della lontananza – i molti giochi di varie torme di marmocchi scalmanati andavano disseminando qua e là per la strada e che mi giungevano congiunti tra loro sempre dagli stessi piagnistei e lamentazioni, che mi facevano pensare immancabilmente agli struggenti eccessi di preghiera di quei pellegrini che vanno nei santuari solo per disperarsi nella speranza di una grazia.
Se fossimo stati davvero vicini anziché invischiati in quella nostra ambigua prossimità irrisoria, io e lei insieme avremmo potuto essere anche qualcosa di assolutamente perfetto come il sale della terra, quello evangelico che non perde il suo sapore e che non viene gettato via per essere calpestato dagli uomini: per lei infatti avrei sottratto ogni eccesso di benevolenza alle carezze facili e solitarie dei miei sogni, all’epoca ancora ingenuamente numerosi, e avrei messo in dubbio la naturale tranquillità del primo volo di qualsiasi speranza, non appena questa mi si fosse volatilizzata. Noi, però, eravamo il sale della terra solamente perché in due facevamo il sapore solitario e segreto di un’unica lacrima. E così, mentre l’autunno inglese cospargeva ancora una volta la terra con le sue solite foglie ingiallite, io, che essendo già orfano di entrambi i genitori godevo del vantaggio di poter dare per scontato l’effetto massimo del sentimento consapevole della morte senza dovermi nemmeno curare, da quel ragazzino irreligioso che ero, delle eventuali e varie narrazioni aliene in materia di santità e di dannazione, il disincanto, mostrandomi un guizzo solo apparente di vera condiscendenza, aveva suscitato in me la voglia ingenua di battezzarla, proprio come se io fossi Adamo e lei Eva e se, invece che a Londra, vivessimo in quel placido al di là del tempo in cui, prima della sciagurata caduta, i due progenitori erano ancora gli abitanti benedetti del giardino dell’Eden.
Avevo quindi deciso – non senza provare nel farlo il piccolo brivido ingenuo e partecipe di una gioia tanto appagante quanto rozza e rudimentale – di chiamarla Millicent.
Era stata una scelta istintiva, presa più per un bisogno contorto e indecifrabile che per un vero e proprio esercizio chiaro della volontà; una decisione ispirata essenzialmente dal suono gradevole di quel nome ormai tanto raro, che però, nel celere appassire dell’ebbrezza sentimentale che aveva prodotto sul momento, mi aveva presto lasciato a fare i conti con le conseguenze morali di un’appropriazione che in definitiva, consistendo in uno dei primi frutti ancora acerbi e misericordiosamente avvelenati del disincanto, aveva reso proprio lei, Millicent, la senza nome, una specie di nuova Euridice.
Credendo di poterla invocare, infatti, avevo accettato a poco a poco l’idea di poterla perdere per sempre e, rifiutando di non poterla chiamare, l’avevo infine a tal punto allontanata da me che da quel momento in poi tutto ciò che aveva a che fare con lei non avrebbe potuto che dileguarsi, lasciandomi in testa solo l’elemosina di un nome fittizio – che avevo inventato io – e l’ipotesi vana di qualcosa di irrimediabilmente ignoto.
(estratto dal primo volume)
©Andrea Rossetti