Tramontata, per effetto di una di quelle rapide anestesie di leggerezza e di svagata incostanza alle quali il disincanto mi avrebbe sempre più spesso abituato nel corso degli anni (sino a farmele percepire addirittura nel contesto straniante dell’ipotesi di una loro continuità misteriosa), la mia voglia di rivedere colei che avevo chiamato Miss Lilith Langtry, e con essa anche il trasporto e le fantasie con le quali fino al giorno precedente avevo nutrito i pensieri più eccessivi e svariati intorno a lei in quanto oggetto ideale e assoluto di ogni mio desiderio, qualcosa di quella vicenda era comunque rimasta a decomporsi nella fecondità segreta di una nuova intenzione, nel concime per una fioritura sentimentale prossima ventura; e tale semente, tutta intrisa di asprigna ineffabilità, ben presto aveva trovato il modo di smaterializzarsi nel seno fertile di un’altra pura forma – sorprendentemente sbocciata a distanza di pochissimi giorni dal sogno spaventoso nel quale si era compiuto dentro di me il definitivo congedo dall’impaccio immaginario rappresentato da Miss Lilith – mediata però questa volta dalle conseguenze, numerosissime e insospettabili, dell’apparizione di fronte alla ritrovata e docile integrità delle mie passioni appena liberate e ai nuovi, teneri germogli della mia, in parte ancora fanciullesca ma senza dubbio, grazie al decorso graffiante del tempo, sempre meno ingenua, fame di esperienza e di fantasia, di un gruppetto di amiche, tutte più o meno della mia età o poco più grandi, che si incontravano e facevano capannello ogni pomeriggio alla stessa ora davanti a un negozio di dischi piuttosto alla moda e in perfetto stile swinging London, che era proprio a due passi dall’abitazione dei miei zii, e che quindi potevo sempre tenere d’occhio anche dal terrazzo, senza essere nemmeno obbligato a uscire di casa.
A onor del vero mi ero già accorto, come se si trattasse dell’impalpabile retroscena della rappresentazione di un vaudeville aneddotico e ciò nonostante provvisto di una – tutta sua – garrula e lusinghiera oscenità, appena polverosamente mitigata dagli effetti della comunque discreta amarezza arenaria infitta in me per principio – quasi da un Cupido alla rovescia – di pari passo con ogni sia pur lieve ipotesi tentatrice di andante e spianato romanticismo, dell’esistenza di quel piccolo grappolo succoso di deliziose neofite dell’ultima ombra (senza dubbio alcuno la migliore) dell’adolescenza, ognuna diversa dall’altra per modi e per aspetto eppure partecipanti tutte insieme di un unico, svolazzante mistero di fondo, mentre mi trovavo ancora nel pieno delle squisitezze cerebrali della mia passione per Miss Lilith che, appunto, assorbendomi completamente con la sua mancanza di tutto come pure coi suoi eccessi di nulla, mi aveva impedito di soffermarmi su di loro come forse avrei voluto e dovuto sin da principio.
Ricordo che, chiuso nella mia stanza a struggermi nell’attesa del piacere di un nuovo sogno, tra i molti, ruggenti rumori di fondo, le sentivo canticchiare ossessivamente dalla strada una specie di giaculatoria aulica e licenziosa, non di rado spezzata dalle loro risa, messa in forma di filastrocca:
Alleanza dell’arca e della creta,
è Arcadia increata da mite
libeccio di cera che gronda
dal favo di un seno – benedetto
sia il frutto – che è senso e stiletto,
invano stretto d’assedio, candito
candore di candela come vile
è il sentimento del sacro nei bambini.
Pedissequo e querulo l’orgasmo
bagnava l’organza della sposa
e profumava l’illibata stanza
talare e matrimoniale e rastremava
stremata l’infanzia demaniale
invece viceversa verso il basso.
Voleva sorreggere le foglie
leggere, scorrevoli nei voli
d’autunno, ma non era
che moglie di petali sfatti
e doglie ombradamore
dentro reconditi parti illusitani.
(estratto dal primo volume)
©Andrea Rossetti