L’UOMO DISINCANTATO – L’appassionato non è un tifoso

Per uno strano paradosso, se Sean era stato decisivo nell’ispirarmi la passione per il tennis, poi il disincanto aveva fatto in modo che questa si nutrisse di sentimenti e convinzioni che lui di sicuro non avrebbe mai condiviso. Infatti, nel contesto profondamente impreciso e sempre in bilico su ulteriori rivelazioni o aggiustamenti di quella che forse potrei definire la dimensione frattale della mia natura disincantata, una delle caratteristiche del tennis che, mentre me ne appassionavo, avevano mostrato di esercitare fin da subito su di me il fascino più consistente era la sostanziale mancanza di tifoserie. A parte l’anomalia rappresentata dalla Coppa Davis che, essendo una competizione tra squadre nazionali, consideravo come una sorta di corpo estraneo, una grossolana deviazione dissonante rispetto allo spirito nomade e individuale di questo sport (e, a testimonianza di ciò, mi piace notare che i campioni più grandi, se si esclude qualche dichiarazione patriottica di rito che l’appartenenza alla specie umana e la conseguente partecipazione ai suoi luoghi comuni sociali li obbliga a fare di tanto in tanto, pianificano la loro stagione agonistica senza tenerne granché conto), una partita di tennis è, anche nel caso del doppio, che è appunto solo lo sdoppiamento e simultaneamente la ricreazione di un singolare, una sfida tra singoli giocatori che si svolge in presenza di un pubblico di singoli individui, raccolti sugli spalti non dall’istinto collettivo che sempre anima il tifo ma da una passione meno viscerale, sia estetica che amorosa, che al tempo stesso li separa uno per uno e li raccoglie tutti.
Non solo il disincanto mi impediva di provare attrazione nei confronti di qualsiasi forma di militanza o partigianeria, che prima di tutto mi avrebbe imposto di sentirmi a mio agio nell’ambito di un gruppo, ovvero di una comunità organizzata intorno a una specifica fede alla quale ogni singolo elargisce, in base al grado di faciloneria militare che possiede, una parte più o meno notevole della propria libera e pensante individualità, ma in un certo senso me ne caldeggiava anche il disgusto nella forma pressoché definitiva di una riflessione in cui la legittimità del mio rifiuto traeva slancio sentimentale dalla radicale desolazione che affligge sempre il cuore di uno straniero. Sotto la lente d’ingrandimento del disincanto la partigianeria è pregiudizio, malafede, rinuncia alla critica, vita fin troppo comoda. Essa è la madre di tutti gli assassini e la santa patrona degli stupidi; è l’acquitrino nel quale annaspa l’onestà; è l’asino retorico che porta sulle sue spalle l’algida leggerezza del dogma e l’incantesimo che piega le schiene degli eccellenti solitari di fronte all’arroganza delle mandrie antropomorfe; è la religione secolare che crea l’alterigia degli dèi, unica giustificazione consolatoria dell’uomo che è libero solo di schierarsi, di combattere – da devoto – battaglie indiscutibili, irrinunciabili, irrevocabili, di riempirsi l’anima con preghiere pubbliche scritte altrove da profeti tanto sacri quanto ignoti.
La partigianeria è il motore della storia e dei suoi inganni. Costruisce miti di moralità e di progresso che rivestono come maschere di carnevale i suoi quotidiani fallimenti e la miseria abominevole delle sue millantate conquiste. È la superiorità morale a uso e consumo degli amorali, dei servi di tutte le ideologie, dei romantici patetici. È la lama che, per ordine del Nerone di turno, pretende che siano aperte le vene dell’intelligenza prima che questa possa rendersi conto che una rivoluzione è soltanto un moto, poco importa se astronomico o sociale, che torna sempre al punto di partenza. In fondo la partigianeria è la migliore amica di tutti gli utili idioti. Essa umilia ogni possibile esito che l’onestà e la fatica del pensiero sono in grado di raggiungere facendo dell’altro individuo, dell’altra nazione, perfino dell’altra famiglia, altrettanti avversari da contrastare e bersagli di abbattere. Davanti a un uomo indipendente – e a maggior ragione a un uomo disincantato – c’è l’umanità tutta intera, fatta semplicemente di uomini e di donne; di fronte al fazioso militante, invece, non ci sono che amici e nemici.
Le aberrazioni della storia sono la conseguenza dei fanatismi e delle partigianerie tanto quanto dell’inerzia degli indifferenti. I troppo presenti e i completamente assenti della storia congiurano infatti da sempre per escludere chi, a differenza dei secondi, decide comunque di pensare e di agire ma, diversamente dai primi, sceglie anche di farlo per conto suo. Gli uni e gli altri si suddividono i compiti così come farebbe il più accorto dei registi con i suoi attori: i militanti di qualsiasi parte si massacrano tra di loro in nome di contrapposte verità mentre gli indifferenti, con la loro inoperosità beota, consentono di volta in volta alla consorteria partigiana vincitrice di dilagare, di imporre il proprio verbo, le proprie leggi, la stessa gabbia nella quale i suoi adepti hanno lasciato che si imprigionasse la loro intelligenza. Le dittature, di qualunque specie esse siano (dato che se ne contano molte e in ogni settore), sono tutte partigiane così come coloro che le subiscono, in quanto assenteisti, sono tutti complici della loro affermazione.
Mentre la partigianeria presume che la verità possa identificarsi completamente con un feticcio ideologico e l’indifferenza crede invece che essa non meriti neppure la fatica della ricerca, il disincanto, prendendo le distanze e sconfessando sia l’una che l’altra, riflette dal canto suo una condizione radicale e anarchica, una vertiginosa voragine di libertà critica immersa in un sentimento di pace senza festa, un abbandono solitario che implica al tempo stesso l’inquietudine della deriva e il piacere ancestrale della culla.
Piccoli gruppi di settari militanti determinano il corso della storia e tutti, di volta in volta, giustificano la propria esistenza col dovere di rovesciare la tirannia di altri settari militanti. Essi si combattono nel dinamico succedersi delle epoche ma sono complici nell’attribuire alla storia la forma stabile di un circolo vizioso, giacché ciascuno di loro è fondamentalmente partecipe in linea di principio del delitto e dell’amoralità di tutti gli altri, anche di quelli che senza alcun dubbio avversa in linea di fatto.
È sempre l’ideologia che con la sua superbia materialistica azzera la serena umiltà spirituale delle idee non ancora adulterate in ideali. Nessuna ideologia è innocente, nessuna, ebbra di molte giustificazioni di fatto, è in grado di avanzare una sola, coerente giustificazione di principio; nessuna partigianeria, pur millantando una natura etica e il primato morale della propria visione del mondo, è davvero capace di sanare l’immoralità in sostanza imperturbabile di una sola coscienza.
L’ineluttabilità delle partigianerie che sembra gravare sulla storia non è altro che un’illusione demagogica generata dall’ignoranza e dalla scarsa propensione al coraggio solitario della rivolta virtuosa contro lo spirito e l’arroganza del gregge, dei gruppi strutturati, delle collettività ufficiali; contro la tirannia del sociale e della coatta solidarietà pubblica – che è poi la foglia di fico prediletta da tutti i corrotti e da ogni parassita – e l’organizzazione del senso morale nel modus operandi di una tifoseria.
Agli occhi segreti della mia interiorità disincantata il tennis e il suo specifico pubblico mostravano, in una sorta di compendio emotivo sospeso tra l’evidenza dei fatti e l’incantesimo dei simboli, di partecipare della stessa, irriducibile incompatibilità che mi teneva lontano da chiunque avesse un assoluto bisogno di trovare il suo lato della barricata, di vestire una casacca e di issare una bandiera. Lo snobismo elitario che aleggiava con elegante discrezione intorno al mondo e alla vita dei tennisti – professionisti o dilettanti che fossero – non era in fondo che una forma minimamente crudele di cordone sanitario (che qualcuno tra i faziosi militanti non esiterebbe comunque a bollare come classista, se non addirittura razzista) volta a evitare agli spalti di un campo da tennis la devianza umiliante di schiere di scimmie urlatrici e a salvaguardare quella profonda solitudine del cuore, resa evidente dal religioso silenzio – che, evocato dal richiamo dell’arbitro di sedia, accompagna sempre ogni scambio – in cui ammutolisce e vive la fraternità introversa dei sinceri appassionati.

(estratto dal primo volume)

©Andrea Rossetti

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