L’UOMO DISINCANTATO – L’affair Thaddeus Radcliffe

Come se non bastasse, fra tanta confusione, giunse anche come un fulmine a ciel sereno la notizia dell’allontanamento frettoloso del reverendo Thaddeus Radcliffe, il giovane vicario parrocchiale di Wimbledon dotato di un rovescio preciso e di rara eleganza, alla barone Von Cramm, che il vescovo visitatore della provincia di Canterbury aveva spedito in quattro e quattr’otto a fare il missionario nella diocesi di Southern Malawi, nella provincia anglicana dell’Africa centrale, ufficialmente per venire incontro a una richiesta dello stesso Radcliffe che tuttavia, vista l’eccezionale rapidità con la quale si erano svolti gli avvenimenti, non era difficile indovinare gli fosse stata ben più che sollecitata. La vicenda rimase a lungo ad aleggiare sulle vite degli abitanti del circondario come uno strano mistero, una di quelle questioni particolari sulle quali ci si può interrogare anche tra semplici conoscenti ma mai se si è in più di due o tre persone, quasi che la curiosità e il pettegolezzo debbano conservare in certi casi tutti i freni inibitori e la discrezione che si riservano di solito ai grandi quesiti.
Tuttavia Peter conosceva la verità, anche se gli era stato imposto – con tanto di preambolo rituale sul valore della parola d’onore – il divieto assoluto di parlarne con chicchessia, perché tra le tante ombre che rabbuiavano la vita del circolo nel suo incerto cammino verso l’edizione dei cent’anni, specie a causa del perduranti malumori sentimentali di Oedipa Boot e dopo la polemica rinuncia di David Bowie alla carica di direttore artistico che aveva riacutizzato la stizza dei Porno-Malinconici e le loro ansie di boicottaggio, almeno la tradizionale fiducia nelle istituzioni ecclesiastiche e nel riferimento esplicito alle radici anglicane del torneo e quindi delle celebrazioni del centenario costituiva un capitale morale che non doveva in alcun modo essere messo in dubbio, nonché un elemento di forza decisivo a disposizione dei soci privilegiati e dei membri onorari che controllavano il comitato.
Non a caso tutti i dettagli sull’affair Radcliffe gli erano stati riferiti, nel corso di un pomeriggio uggioso arrotolato su un crepuscolo galleggiante di luce bianca e gialla in cui i raggi del sole a contatto con l’atmosfera terrestre parevano diventare lunghe candele accese e corimbi di fiori di biancospino, proprio da Lord Finnegan – probabilmente per poter continuare a fare assegnamento su di lui scongiurando il rischio che ne venisse a conoscenza per vie traverse col corredo di tutte le imprecisioni, le fantasticherie e le devianze che ciò avrebbe comportato – mentre tentava di distanziare per un po’ i suoi pensieri dall’infinita girandola di preoccupazioni e seccature connesse coi lavori del comitato facendo ricorso a uno dei suoi passatempi preferiti: la cucina, e in particolare la sperimentazione di nuove tartine salate e l’invenzione di ricette per piccoli biscotti e pasticcini particolari da accompagnare alle diverse qualità e miscele di tè pregiato che, da fanatico consumatore, si faceva arrivare un po’ da tutto il mondo.
I fatti, che a Milord aveva riferito in confidenza lo stesso reverendo Radcliffe al termine della loro ultima partita a tennis – vinta come al solito dal vicario con un secco 6-2 6-2 – prima del suo furtivo e precipitoso trasferimento in Africa, erano sorprendentemente legati all’esistenza di una fabbrica dei dintorni, a dire il vero non molto grande ma per altri motivi più nota di quelle di dimensioni maggiori, che sorgeva a poche miglia da Wimbledon, in una zona in cui si era affermata col tempo una sorta di ambiguità paesaggistica nell’alternanza quasi nevrotica di scorci ameni e tetraggini industriali, per cui non era infrequente da quelle parti poter godere di una vista bucolica in cima a una collinetta alberata solo pochi minuti dopo essersi lasciati alle spalle lo squallido anonimato di un grande capannone circondato dal fango.
Ebbene, quando il vicario passava nei pressi di quello stabilimento industriale per motivi che avevano a che fare col suo ministero, non poteva fare a meno di lanciare un’occhiata alle grandi torri che fumavano ininterrottamente pigre colonne di vapori candidissimi. Aveva confessato a Lord Finnegan che, da fervente antipapista, ogni volta non riusciva a non pensare – in cuor suo ridacchiando – al teatrino del conclave e alla fumata bianca dal comignolo dell’habemus Papam, cioè ancora e sempre alla strana comunella che il diavolo fa da sempre con l’acquasanta romana.
Davanti ai cancelli della fabbrica scorgeva poi immancabilmente il solito manipolo di contestatori cristiani, le imperterrite sentinelle di una moralità pubblica chiamata almeno a fare da foglia di fico all’immoralità privata dilagante. Non si stancavano mai, e per questo, in fondo, molto in fondo, il reverendo Radcliffe li ammirava, anche se erano quasi tutti cattolici.
Durante quelle che anche a cose oramai fatte si ostinava a considerare nient’altro che delle casuali ricognizioni, la sua automobile scorreva via rapida e lieve sulla strada e la velocità rimaneva costante per non dare l’impressione – prima di tutto alla sua stessa coscienza – di uno specifico, particolare interesse per quel luogo. Tutto doveva mantenersi nei limiti ben rodati della più assoluta normalità e nessuna concessione a emozioni superflue poteva essere considerata ammissibile, in quanto lui – il suo idolo segreto e inconfessabile, l’angelo sterminatore della giustizia divina che a suo parere era stato diffamato dalla maldicenza di una civiltà raggirata dal conformismo di una sofistica accomodante – non le avrebbe tollerate. Se voleva sperare di essere alla sua altezza, di essere degno dell’unico uomo che, subito dopo Gesù Cristo, fin da bambino aveva ammirato con tutto il suo cuore, avrebbe dovuto anche essere in grado di controllarsi proprio come lui, prestando con freddezza la massima attenzione a ogni particolare di ciò che infine era tenuto a portare a compimento.
Nel corso di questa vertigine sempre più convulsa fatta di attesa, ansia, timore, pianificazione, fede e convincimento, in cui ogni sua singola passione era liberamente lanciata all’inseguimento di tutte le altre in una corsa senza freno lungo il solco squassato di uno stato d’animo tanto risoluto nelle emozioni quanto disorientato nelle ragioni, il reverendo Radcliffe aveva infine scelto la fatidica data, quella del giorno in cui avrebbe redento la benemerita missione storica del suo idolo battendone, nel contempo, il record personale.
A notte fonda, quando il parroco dormiva già da un pezzo forse sognando di tenere sermoni d’altri tempi in una chiesa ancora gremita di fedeli, lui si era silenziosamente alzato dal letto, aveva preso la borsa coi ferri, che era già pronta e nascosta nel ripostiglio della lavanderia, era salito in macchina e si era diretto senza esitazioni verso la fabbrica. Non sapeva, però, che la moglie del parroco, in preda a una delle sue frequenti crisi d’insonnia, l’aveva visto allontanarsi dalla finestra della sua stanza.
Giunto a destinazione, aveva parcheggiato tra le due grandi querce che erano sul ciglio della strada, affinché nessuno passando da quelle parti potesse scorgere e riconoscere la sua automobile, e aveva quindi rimosso il tombino di ghisa che chiudeva il varco d’accesso ai canali di scarico. Una volta sceso laggiù, raggiungere l’interno della fabbrica era stato un gioco da ragazzi. L’ultimo problema che aveva dovuto affrontare erano stati i molossi da guardia che di notte venivano lasciati liberi di gironzolare all’interno dell’edificio ma l’aveva risolto senza impiegare troppo tempo grazie a due succulente polpette di carne fresca mischiata a una dose di pentobarbitale sufficiente a metterli fuori combattimento per ore senza tuttavia ucciderli: dal suo punto di vista, infatti, l’innocenza di quegli animali, preservata nella sua piena integrità dalla loro inconsapevolezza, meritava il rispetto pieno di un atto di misericordia.
Dopo aver messo a dormire i due cani si era finalmente trovato tutto solo nel seno rassicurante di un’oscurità attraversata dai sospiri circolari – rallentati di tanto in tanto da un breve increspamento simile a un rantolo – delle ventole d’areazione e da un’evanescente odore di nuovo, con vivide note di plastica, abbastanza simile a quello degli interni di un’auto appena comprata, e aveva cominciato a spostarsi, con un movimento lento e misurato che, a causa del progressivo scontornarsi dell’orizzonte visivo nel buio dominante, gli dava la sensazione di essere lui di volta in volta il punto di fuga rovesciato dell’immenso magazzino che raccoglieva un numero incredibile di bellissime finzioni di prostitute, allineate con metodo per generi e categorie. Ce ne erano di ogni tipo, tutte assolutamente perfette. Non si trattava delle solite bambole gonfiabili da sexy shop di quart’ordine ma di veri e propri cyborg ideati per soddisfare senza rischi ogni perversione, come e meglio del più disinibito tra gli esseri umani. Il loro corpo era reale, morbido, sinuoso, e rispondeva senza esitazioni a ogni sollecitazione esterna; questo era possibile grazie a un processore monolitico in grado di gestire centinaia di migliaia di soluzioni diverse: altro che le mogli e le amanti coi loro monotoni strilli e i gemiti sparsi più o meno sempre uguali. Ma la cosa più sorprendente era la speciale programmazione della percezione che le induceva a provare surrogati artificiali identici alle sensazioni umane del dolore e del piacere che sfociavano quindi in conseguenze del tutto coerenti e credibili. Quelle creature infatti urlavano davvero se subivano una qualsiasi violenza così come ansimavano riconoscenti quando chi le aveva comprate le usava invece solo con intenti di amabile godimento. O perlomeno questo era ciò che sembrava perché, in pratica, il vero e il falso sono concetti che discendono dall’apparenza del medesimo punto di vista, e proprio intorno a questa presa d’atto si era arrovellato a lungo il giovane e osservante vicario della chiesa di Wimbledon mentre elaborava la sua risoluzione finale.
Quando Thaddeus Radcliffe, facendosi luce con una torcia elettrica, aveva finalmente potuto guardare in santa pace quella schiera di donne così verosimili, nude o vestite, brune, bionde o rosse, e bianche, nere, gialle o ambrate, si era aggirato a lungo con calma e in silenzio tra di loro e poi, all’improvviso, nel momento esatto in cui un lampo aveva infine spezzato in due con assoluta certezza il suo sguardo, aveva scelto la sua prima vittima. Il bisturi che teneva in mano era allora affondato impietoso dentro di lei, producendo squarci definitivi e dilaniando quelle carni contraffatte destinate dal produttore a soddisfare ogni desiderio inconfessabile del consumatore per sole diecimila sterline. La bambola, essendo programmata per gridare, aveva urlato a lungo, adempiendo al suo dovere di fabbricazione e smettendo infine di funzionare per sempre in un lago di sangue, ovviamente finto – ma in quel momento, come capita in tutte le circostanze considerevoli, la credibilità del vero e del falso, in piena coerenza con l’apparenza dello stesso punto di vista dal quale derivano, non poteva non essere condizionata dai più contrastati sentimenti derivanti dall’evidenza. Poi la medesima sorte era toccata a un’altra, e quindi a un’altra ancora, finché, esausto e appagato, il vicario non era finalmente riuscito a massacrarne una in più del suo idolo, Jack lo Squartatore. A differenza di quanto ai tempi sarebbe accaduto al suo modello, però, visto che a conti fatti nel suo caso non si era trattato che di bambole, di giocattoli erotici ancorché assolutamente perfetti, il rischio massimo era quello di una condanna a qualche mese di carcere con la condizionale per scasso e danneggiamenti, che, data l’inflessibile delazione della moglie del parroco, aveva evitato patteggiando col vescovo, e per suo tramite con Scotland Yard, il suo repentino trasferimento in Africa.
Mentre raccontava confidenzialmente a Peter questa storia, Lord Finnegan non smetteva di ostentare un interesse quasi assoluto per la lievitazione dei suoi nuovi biscotti nel forno, col chiaro intento di manifestare al suo interlocutore una dissociazione o quantomeno una personale indifferenza rispetto agli avvenimenti che gli stava riferendo. Ci sono materie, infatti, e tra queste quasi tutte hanno appunto a che fare con la pubblica morale o con gli affari della chiesa anglicana, sulle quali il galateo dell’aristocrazia britannica – mai scritto ma non per questo meno rigoroso nell’essere applicato – impone di tenere un atteggiamento di prudente impassibilità, non di rado accompagnato dalla disponibile leggerezza di molti argomenti collaterali.

(estratto dal secondo volume)

©Andrea Rossetti

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