L’UOMO DISINCANTATO – La vecchia ruota panoramica.

“Sono fermo alla mancanza di fede, ma con mutevole cura…”
Questo pensiero, che lo teneva in sospeso nell’oggettiva incapacità di scegliere se decifrarlo mediante l’inquietudine o la speranza, galleggiava nella testa di Elias mentre vagava per la città, senza avere la guida di un sentimento preciso, quando davvero ogni cosa era appesa altrove, ad asciugare come un bucato qualsiasi. Tutti i suoi tentativi di trovare un ordine interiore quantomeno accettabile giacevano qua e là, già spezzati o ancora soltanto incrinati, comunque irreparabili, e perdevano le già deboli certezze di una vita intera nel costante gocciolare del pianto e del sudore, finendo poi stranamente a riposo intorno alla fissità del suo sguardo smarrito, che se non altro dall’esterno poteva essere scambiato con la più ordinaria delle allegrie borghesi. Se infatti la sua mente somigliava a una vecchia tazza da caffellatte nella patria del tè, in definitiva Elias non si proponeva affatto in società come un uomo triste ma, nella peggiore delle ipotesi, col compito piacevolmente inutile della comparsa. Le sue movenze erano perfettamente eleganti e sotto controllo, così come la sua libido, scossa ormai con qualche accenno di enfasi da un solo, lucidissimo rimpianto: non aver mai visto ciò che del corpo di Milica gli era sempre stato negato con metodica accuratezza da una teoria infinita di striminzite mutandine.
Di lei, anni dopo, avrebbe detto: “La donna che ho conosciuto io non era quella che oggi ricordano gli altri. Era una fantasia suggerita dalla musica, un fantasma mai appartenuto al tempo degli uomini. È inutile cercare ciò che non si è mai trovato ma è dolce trovare quel che mai si è cercato! Quella donna era un suono felice, un evento che non appartiene alla memoria ma ai sogni gelosi della solitudine…”.
Al momento, l’occhio indomabile delle cose passate guardava al futuro di Elias con buona speranza e senza particolari ossessioni per la decenza. Il presente, dal canto suo, se ne stava irrisorio e circoscritto, allenato a trapassare i secondi con piccoli chiodi da crocifisso in miniatura, di quelli senza Calvario, fatti per essere appesi nelle camere da letto. Dalle ferite di questa ordinaria passione sgorgavano whisky e soda, con una certa preponderanza del primo.
Elias differiva se stesso, ogni giorno di più. Aveva disseminato la casa di fotografie di Milica, via via rarefacendosi, stilizzandosi, sottraendo al proprio corpo consistenza, desideri e malizie. Era infine diventato ai propri occhi del tutto inammissibile e di questo si rallegrava con lusingata leggerezza, come per una rassicurazione divina contro la minaccia rappresentata dai suoi sensi, restandosene quindi ben piantato nella dispersione di quella semina – che era in fondo però sinceramente spirituale – di fotografie piatte, benevole di una tridimensionalità simulata, attento come mai a salvaguardare la profondità del silenzio circostante col mutismo coraggiosamente conquistato della sua voce. E in quel tripudio senza suoni d’inerzia e di vaghezza che vampirescamente lo lasciava esangue, risucchiandone altrove, nelle cose e nell’immagine delle cose, tutta la vitalità, il suo essenziale divenire scarno era quello di un fantasma e la sua vocazione quella salottiera della vetrinetta. Di questo Elias era finalmente felice e, di tanto in tanto, riusciva addirittura a sorridersi allo specchio.
Durante le sue passeggiate andava spesso a guardare la ruota panoramica del vecchio Luna Park in disarmo. C’era ruggine ovunque, piccole tracce sparse di desolazione e intorno vento, sempre odoroso di pioggia. Era uno spazio aperto ma guasto, inutile e tradito, eppure assolutamente reale, a modo suo consistente. Nessuno poteva negare l’esistenza di quella ruota così come viceversa era diventato impossibile attribuirle un significato. Uno scheletro meccanico, vecchie cabine pericolanti in bilico su fili d’aria sempre più fredda, cigolii di vecchiaia e di stanchezza, ma anche di irriducibilità. Eppure per Elias era diventata come un monumento da visitare puntigliosamente, la carcassa di un’antica allegria festosa, perduta senza dolore, nel sovrappensiero più banale della vita. La sua immobilità ne negava drammaticamente la funzione, ma non la storia né la dignità estrema di un’imponente sopravvivenza. Elias lasciava fotografie di Milica anche nelle cabine che stavano più in basso, le gettava dentro saltellando, come fossero dei volantini pubblicitari, sperando in un colpo di reni, in un movimento epico del colosso, tanto simile alla sua vita che aveva incollato al grande specchio dei vuoti e dell’assenza, ben sapendo, però, che solo una tempesta davvero feroce avrebbe potuto seriamente rimettere in moto quel dinosauro di ferro, a costo del suo quasi immediato crollo definitivo.

(estratto dal secondo volume)

©Andrea Rossetti

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

error: All rights reserved (c) massimocasa.it