La prima visita della Lady al mio Digamma Cottage coincise con una cena a due, del tutto informale e tuttavia incalzata da una subdola vocazione al distacco dell’eleganza, ben strutturata su gelide folate di intorpidimento intellettuale che, nonostante l’azione eversiva del robusto vino rosso servito in accompagnamento alle portate, irrigidivano puntuali il languore necessario a ogni slancio e abbandono. La reciproca osservazione scientifica era ancora pienamente imperativa ed esigeva, senza ribassi, una congrua distanza dei rispettivi punti di vista.
Che in quelle condizioni avremmo mancato di trovare il bandolo della matassa di un’intimità fisica verosimile, quindi non necessariamente subito del tutto vera ma neppure falsificata a priori dalla solita chimica dell’accoppiamento estemporaneo, era chiaro a me e, credo, anche a lei. Entrambi, però, nutrivamo belle speranze per il futuro.
Vedevo nei tratti del suo viso di fronte a me non tanto la perfezione, che porta sempre con sé un’ombra d’impassibile pesantezza, ma l’assenza lieve e vivace di qualsiasi mediocrità, e quando poi, sulla terrazza illuminata dalle candele avvolte in spesse coppe di vetro, il solito e grossolano vento inglese, benché per sua natura poco temerario, si era accostato troppo ai suoi capelli, avevo provato l’istinto di cacciarlo via con dispetto, perché in quel momento a niente e a nessuno volevo permettere di sottrarre alla mia mano anche una sola carezza destinata a lei.
Nella vita degli uomini più fortunati c’è sempre un giorno in cui si imbattono nel solo viso che non dimenticheranno mai. Comunque vada, sia che l’incontro porti con sé felicità oppure sofferenza, quel giorno è sempre un privilegio e accade una volta per tutte, per rimanere, fino alla fine, come una cicatrice o una pietra preziosa. Perché ci si incontra davvero soltanto nell’eccezione e ci si trova infine nel dirsi addio, perché, a differenza di quanto si è soliti credere, la felicità non è una condizione ma la sua premessa, e tutto ciò che non ti minaccia, che non t’inganna o deruba, che non mente a te e su di te, che non ti ferisce mai e ti lascia sopravvivere in santa pace, non è amore, è dialogo.
Svegliandomi il mattino successivo, dopo quella prima notte passata con la Lady, mentre lei ancora dormiva raggomitolata nuda tra le lenzuola e i cuscini come una ferita rosa in via di guarigione, trovai ad attendermi fuori dal letto né più e né meno che il solito vuoto interminabile, acquattato come sempre intorno alla mia vita e pronto a darmi per scontato, così come faceva per consuetudine ogni giorno.
Per colpa di una prolungata disattenzione, e senza dubbio per un effetto collaterale delle pasticche di DOG, ero consapevole di essermi seriamente innamorato, ma di quell’innamoramento vero, raffermo che va ben al di là del consueto, palpitante ordito di sguardi e di tachicardie, di tenerezze e accoppiamenti, che di norma in società si considera tale; e sapevo benissimo che ciò era accaduto contro ogni mia ragionevole aspettativa e scombinando tutti i programmi di assoluta dedizione agli allenamenti per il grande torneo del centenario (durante il quale contavo di poter disputare in finale quella partita di tennis perfetta che, con fregola matematica, stavo studiando a tavolino da anni), e mi maledicevo per questo; ed era, d’un tratto, una sensazione tragica di capogiro perché l’amore non dà mai un senso alla vita ma invece la confonde e la perde con l’imboscata del dono di un nome. Il vero amore, quello non borghese, è la mela dell’Eden rubata per gioco da un bambino innocente.
Quando all’inizio non ci volevamo che un po’ di bene la Lady mi aveva detto che eravamo troppo fragili per stare insieme. Ebbene si sbagliava, perché era vero l’esatto contrario: eravamo invece troppo forti e lontani per poterci amare! Allora, infatti, il massimo dell’amore riconosciuto e disponibile, tra l’euforica e rudimentale irresponsabilità che ci circondava e che ci faceva suoi complici felici a dispetto di tutto, non era che il narcisismo delle parole – spesso degenerate in chiacchiere tanto ubriache quanto in fondo comuni – e del sesso abusato altrove, con altri, quale stanca e penosa trasgressione di se stesso. Amore, invece, è una parola così antica da essere pronunciabile solo da morta, un aborto linguistico, forse terapeutico. Tutto è il contrario di tutto! Si capisce soltanto quando è tardi, dalla tenerezza defraudata del suo oggetto, che violentemente ci tratteniamo accanto, a circoscrivere i contorni, che non saranno mai sfumati, del nostro più onesto quanto vano pensare. È la maledizione di una parola oltraggiata dalla sua stessa musica, un jingle buono per tutte le stagioni, uno spot pubblicitario per l’umanità mentita e raccontata da una sempre più cattiva letteratura, il vero Amore.
(estratto dal secondo volume)
©Andrea Rossetti