Giunto al circolo, Peter fu sorpreso di trovare Lord Finnegan – che, facendo affidamento sin dall’inizio sulla sua occhiuta presenza e sulle sue indiscrezioni, partecipava solo di rado di persona alle riunioni del comitato per le celebrazioni del centenario del torneo – appartato in un angolo della sala in compagnia di alcuni tra i soci più influenti, tutti interamente assorbiti da un’animata discussione della quale, però, era impossibile carpire i dettagli dalla posizione in cui si trovava; il tono della voce di quegli uomini importanti, infatti, era mantenuto ad arte talmente basso da poter essere scambiato a distanza per una simulazione, come se ci si trovasse in realtà di fronte a un gruppetto di mimi disposti in cerchio al solo scopo di giocare tra loro. In effetti, l’esuberanza eccessiva e il dinamismo della gestualità che accompagnava quel colloquio riservato strideva in misura considerevole con la pressoché totale assenza di una relativa componente sonora; tutta la scena nel suo insieme evocava la concitazione innaturale della proiezione sbagliata di un film muto, girato per una velocità tra i 16 e i 20 fotogrammi al secondo e riprodotto invece con un proiettore moderno a 24 o 25 fotogrammi al secondo. Intorno era tutto un formarsi e sfaldarsi di capannelli di minore rilievo, consapevoli, a partire proprio dalla breve durata, della loro marginalità di piccoli ed effimeri sistemi solari ospitati in un universo secondario, che esplodevano uno dopo l’altro liberando i singoli membri alla stregua di meteoriti in cerca di un’orbita alternativa che li salvasse tanto dalla caduta libera della solitudine quanto dallo schianto di una definitiva emarginazione. Il clima generale ricordava quello di un reparto di chirurgia d’urgenza all’arrivo di un paziente in condizioni critiche e a rischio di vita; nell’aria viziata galleggiavano talmente tanti aromi diversi per finalità e preparazione – dai profumi dolci per signora a quelli più speziati da uomo passando per un’infinità di saponi e dopobarba – che, confondendosi in una sorta di impossibile impasto, davano all’olfatto la stessa sensazione inquietante e anonima degli antisettici nella corsia di un ospedale.
Peter provava uno strano disagio, un sentimento imbarazzante di distacco radicale, come se stesse vivendo quella scena da un punto di vista improprio e con la stessa insoddisfazione di un voyeur che, dopo essersi rannicchiato comodamente dietro un cespuglio per spiare le effusioni di una coppietta, si accorga di aver preso con sé gli occhiali da lettura anziché quelli da vista.
Lord Finnegan colse al volo con la coda dell’occhio l’arrivo di Peter ma, non potendo abbandonare il conciliabolo tra ottimati al quale stava partecipando, preferì sul momento ignorare del tutto la sua presenza, evitando di rivolgergli anche un semplice cenno di saluto.
La prima a concedergli un sia pur minimo cenno di attenzione fu invece Oedipa Boot, che andava avanti e indietro perfettamente calata nel suo ruolo ufficiale di sottosegretaria per il disbrigo delle questioni burocratiche e organizzative.
“Oh, ecco la giovane promessa del nostro tennis! Le hanno comunicato la grande notizia?” gli chiese prendendolo sottobraccio e aggredendo il suo sguardo con un sorriso maligno del tutto incoerente con la sobria ed elegante malinconia della sua espressione naturale da bella borghese quarantenne, appagata in tutto e per tutto infelice.
“Francamente no…” rispose Peter, lasciando trapelare senza scortesia anche un cauto disinteresse.
Il tono confidenziale di Miss Boot, che ben si accompagnava al gesto del suo braccio stranamente energico e strizzato intorno a quello di Peter con una forza che a poco a poco aumentava come quella di un serpente costrittore avviluppato intorno alla sua preda, era evidentemente carico di aspettative: le parole frusciavano le une sulle altre producendo all’ascolto la fastidiosa sensazione di un vinile rigato mentre lo sguardo, alternando fughe perse nel vuoto a pronti ritorni alla fissità della concentrazione più assoluta, tradiva lo stesso mistero arrendevole dei sospiri notturni di un barbagianni.
“Ma come? La grande idea di quell’intrigante della Rugosa! Possibile che nessuno gliene abbia parlato? Poi proprio a lei che, ormai lo sanno tutti e quindi non lo neghi, è il cocco di Lord Finnegan!”.
“Rugosa” era il soprannome che, di comune accordo e con un velenoso sarcasmo pienamente condiviso, un po’ tutte le socie avevano dato all’aristocratica consorte di uno dei tesserati più illustri in assoluto, uno di quelli che già solo per il cognome che portava dava libero sfogo a rabbia e invidie a cascata.
“Le assicuro di no…” rispose di nuovo Peter mentre incrociava ancora e ripetutamente lo sguardo – incerto tra la rassegnazione e l’ansietà – di Lord Finnegan.
“Beh – riprese Oedipa – in sostanza si tratta di questo: per placare un po’ gli animi, soprattutto quelli dei soci temporanei che, sentendosi frustrati a causa del loro mancato coinvolgimento nel progetto del comitato, hanno messo in piedi quella bravata terroristica del manifesto dei Porno-malinconici, avevamo deciso che l’idea fondamentale delle celebrazioni del centenario dovesse diventare l’arte tout court: un’ispirazione ecumenica e senz’altro nobile, di sicuro meno intransigente di tutte le altre che erano state avanzate in precedenza. Non avremmo celebrato quindi tanto il circolo in sé, e nemmeno la storia del nostro torneo, ma ci saremmo sforzati di ripensare a questi cento anni come a un ininterrotto richiamo ai valori più alti della bellezza, nei termini di un’ambizione costante e aperta. Interpretare il torneo di Wimbledon allo stesso modo di un’opera d’arte, coi medesimi strumenti utilizzati dai nostri migliori critici contemporanei, che possono dire qualsiasi cosa e poi anche l’esatto contrario, ci avrebbe aiutati ad aggiustare i conflitti una volta per tutte, perché l’esclusione dei Porno-malinconici a quel punto si sarebbe limitata alla semplice prassi, nei limiti e con le caratteristiche dell’ovvietà burocratica, ma non allo spirito dell’iniziativa. Essere generici, dimostrando buona volontà, senza però essere rinunciatari quanto a dignità, mi capisce?”.
“Sinceramente no…” replicò Peter, confortato dalla verosimile prospettiva di poter essere ripetitivo ancora a lungo.
“Ma come, mio caro?! Comunque sia, noi pensavamo all’arte come ispirazione, come chiave di lettura super partes del grande centenario, ma in senso alto, alato, opportunamente vago, se vogliamo strategico e finalizzato alla pacificazione degli animi. E invece cosa ci organizza di testa sua la Rugosa, cogliendo tutti alla sprovvista e guardandosi bene dal mettere al corrente dei suoi propositi perlomeno la sottoscritta, che fino a prova contraria sarebbe ancora la sottosegretaria facente funzioni di Milord? Non lo indovina?”.
“No, mi dispiace…”.
“È sempre così quando si ha a che fare con la presunzione degli aristocratici di media levatura, niente a che vedere col suo amico Lord Finnegan o con Sua Altezza Reale il Duca, ovviamente!”
“Ovviamente…”
“In parole povere, la Rugosa, con quella sua smania di sentirsi sempre alla moda, con l’unico intento di diventare la beniamina dei nostri soci più giovani anche per aver sedato da sola, prendendosene tutti i meriti, la complicata rivolta dei Porno-malinconici, ha aperto con arroganza una breccia nell’organizzazione del nostro comitato, proponendo, e di fatto nominando senza prima consultare nessuno, il direttore artistico della nostra svolta artistica!”.
Intanto Lord Finnegan indirizzava a Peter dei gesti apparentemente inconsulti, indicandogli l’ingresso del salone.
“Eccolo, è arrivato!” esclamò all’improvviso Miss Boot lasciandosi sfuggire un’increspatura di incongruente compiacimento nella voce.
“Chi?”
“Il nostro direttore artistico…”
“E chi è?”
“Un cantante…”
“Un cantante?”
“Si chiama David Bowie…”