Francis dunque si agganciò, sempre senza esitare, alle ultime parole di Wittgenhauer, ma stavolta lo fece pronunciando la sua replica con una cedevolezza tonale lievemente variata, non più sospinta come in precedenza dalla meccanica fissità di un punto coronato posto sopra la nota del soffio ma da una specie di solfeggio, di prolungata sillabazione di un fruscio: “Continuo a ritenere che quando agisco non interpreto, a meno che non mi venga un dubbio. Ma per fortuna non passo tutto il giorno a dubitare e penso che non lo faccia neppure lei. O interpreta forse quando si siede alla scrivania per lavorare a un nuovo saggio o al testo della sua prossima lezione per l’università e mette all’opera istantaneamente l’associazione fra i tasti della macchina da scrivere e le lettere che appaiono sul foglio? Mi sfugge poi, se mi permette di aggiungere un’altra piccola ansa al corso delle nostre chiacchiere, come possa qualcosa che non dica ‘devi fare ciò’ essere secondo lei intrinsecamente totalitaria. Sul fatto che sia amorale sono pure d’accordo ma sul totalitario proprio non riesco a seguirla. E, tanto per continuare con le divagazioni, ne ho in testa proprio adesso anche un’altra, che, beninteso, non vuole avere nulla di provocatorio e che difatti mi auguro lei consideri alla stregua di una semplice osservazione: il suo ragionamento si dovrebbe applicare tale e quale ai misogini, ma non ai bisessuali, perché i primi hanno la stessa antifunzionalità strutturale mentre i secondi si possono tranquillamente riprodurre. O mi sbaglio?”
Wittgenhauer piegò le labbra in un sorriso frastornato, accompagnandolo con un’interiezione d’insofferenza e di stupore sbuffata fuori nel momento esatto in cui si lasciava scappare anche un rapido innalzamento delle braccia; si trattava, nel suo complesso, di un contegno pervaso da una consistente disarmonia, sfuggito quasi con malizia alla stretta vigilanza dell’autocontrollo, che per un attimo lo collocò precisamente a metà strada fra un miscredente che mandi a quel paese i discorsi di un baciapile e un prete che stia dicendo messa: ” Esatto. La bisessualità non è antifunzionale e infatti non penso che sia patologica, casomai viziosa, immorale, ma questo è palesemente un altro discorso che lei, furbetto, prova a introdurre per confondermi ma dal quale io non mi lascerò tentare. Per quel che riguarda invece la questione dell’abbinamento fra i tasti della macchina da scrivere e le lettere che appaiono sul foglio, si tratta chiaramente di un pregiudizio: chi scrive un testo a macchina si rimette a un’interpretazione della realtà che è già stata data. L’ermeneutica non salva mica dalla necessità, mio caro! Quanto poi al motivo per cui l’ho definita intrinsecamente totalitaria, ebbene volevo solo rilevare come essa non consenta alla volontà di determinarsi in modo libero. All’opposto di quanto si pensa, la libertà è effettiva solo nel discernimento, nell’ammissione di un dovere morale, nell’attitudine critica. Ma questo è precluso dall’ermeneutica che nella sua indifferenza strutturale, e quindi – letteralmente – totalitaria, inaugura una volontà assoluta, ponendola presso un ‘potere’ in linea di principio privo di limiti e tuttavia nient’affatto libero, poiché costretto a decidere senza scegliere. L’ermeneutica è totalitaria perché rende ogni uomo la controfigura di un despota, schiavo di un labirinto di specchi che lo riflettono ovunque e senza soluzione di continuità”.
“Davvero”, ridacchiò Francis, “non mi sembra di aver mai interpretato il dato di fatto che premendo il tasto della ‘A’ sul foglio appaia proprio quella lettera, come invece mi è successo con ogni probabilità riguardo al funzionamento della levetta da tenere abbassata o da bloccare quando voglio le maiuscole. E comunque il fatto che una volta si sia interpretato non significa che si interpreti sempre, esattamente come il fatto che si sia imparato a guidare non implica che ogni volta che si sale in macchina si stia imparando a farlo!”
Senza che nessuno dei due se ne rendesse davvero conto, a dispetto addirittura dell’ampia prospettiva da cui, grazie alla distanza tra i loro scopi iniziali, essi erano in grado di guardare alla genesi e allo sviluppo del dialogo, la discussione aveva perso a quel punto ogni asprezza polemica e attitudine provocatoria per imboccare una volta per tutte la strada di una leggerezza infantile, lungo la quale le parole e i pensieri si inseguivano e si agganciavano dando vita a disarmanti capriole dialettiche compiute in assenza di gravità che poi, a poco a poco, terminato lo slancio aereo del proprio galleggiamento, andavano a digradare in una miriade di carole sonore sparpagliate qua e là, tra le coscienze e lo spazio. Attraverso una fitta mescolanza di casualità e di intenzioni, mancante di adeguate sponde logiche, alla fine si era venuto a creare tra i due anomali antagonisti un clima provvisorio, istintivamente ispirato – e sempre senza che s’instaurasse il benché minimo affetto reciproco – alla sola ironia della sorte, che poi, mentre i minuti trascorrevano marcati da un sentimento in cui il tempo, esaurito per intero dalla sua destinazione fisica di involucro della vita, non faceva che consumarsi e svanire senza accantonare nulla di sé a beneficio soggettivo della memoria, aveva finito per distillare dal mondo sensibile, in estasi da svago assoluto, l’essenza spirituale tipica di un ballo in maschera o di una gita scolastica.
“Lei interpreta”, riprese il professore,”nel momento in cui fa riferimento al dato che ‘A’ è ‘A’, implicando per esempio il suo valore vocalico, la sua forma grafica, e poi l’alfabeto latino, e così via. Tutto ciò può avvenire perché dei codici si mobilitano per questo e con essi tutta una tradizione, un modo di esistere del linguaggio. Nell’interpretazione non c’è un evento originario che non sia convenzionale, una pura contingenza. Parlando di pregiudizio, infine, intendevo riferirmi a un pregiudizio ermeneutico rispetto al fatto in sé, cioè l’abbinamento fra i tasti e le lettere. Pregiudizio è tutto ciò che rende possibile l’interpretazione: è vero che non si impara incessantemente a guidare ma è altrettanto vero che ogni volta che si guida si interpreta il mondo secondo quel codice. Un divieto di svolta a destra sarà sempre tale, e quindi nel suo piccolo ci aprirà sempre un mondo, perché il codice che abbiamo imparato ci consente di interpretarlo correttamente ogni volta che lo incontriamo.”
“Siamo d’accordo che dietro, oppure sotto, tutte le nostre azioni ci siano un gran numero di pratiche e saperi cristallizzati o fossilizzati, ma io insisto nel sostenere che tutto ciò non sia soggetto a interpretazione. Lei la pensa diversamente, e a questo punto la domanda davvero fondamentale diventa: cos’è un’interpretazione?”
“Sbaglierò, ma temo sul serio che lei reputi le prassi automatiche, che sono solo attività neuromotorie innescate dall’interpretazione, degli atti conformati alla mera consuetudine. Dovrebbe conoscere dei soggetti – senzienti eccome, glielo garantisco! – che abbiano subito però una qualche lesione dell’area cerebrale deputata al linguaggio e per i quali la ‘A’, ovunque questa venga loro mostrata, non ha alcun significato. Immagino lei possa sperimentare di persona una cosa del genere solo armandosi di una macchina per scrivere con la tastiera in caratteri ebraici o cirillici. La stessa cosa si può dire per la guida di un’automobile: si tratta di automatismi neuromotori sempre posteriori a una decodifica e di interpretazioni del codice della strada messe in atto nella prassi motoria. L’interpretazione è anche la comprensione e il possesso di una determinata conoscenza. Essa non coincide semplicemente con la cosiddetta variazione sul tema, altrimenti addio! Quante lettere ci sono nella nostra lingua che si possono sostituire alla ‘A’? Lei interpreta la ‘A’ in quanto la comprende, difatti me la rimanda, me la restituisce come tale, altrimenti io non potrei leggere quello che scrive. Se pensa di non fare un processo di decodifica e d’interpretazione tutte le volte che digita si sbaglia di grosso: è solo diventato più rapido il meccanismo a livello cerebrale.”
“Mi consideri pure limitato o addirittura uno stupido ma quello che succede a livello cerebrale non m’interessa. Stiamo discutendo di concetti, non di neuroni, professore. Con l’area di Broca danneggiata non si riesce parlare? Va bene, ne convengo. Ma questo non significa che il linguaggio sia riducibile all’area di Broca. Una partita di tennis è indubbiamente un insieme di attività muscolari, ma lei ce lo vede un giornale pubblicare un titolo del tipo: «Finale di Wimbledon: consumate complessivamente 920 calorie nel primo set, un po’ meno nel secondo e nel terzo»? Quello della tastiera ebraica, poi, è un esempio che mi sembra davvero sofistico: molto banalmente, io non sono ebreo, non conosco l’ebraico, sono inglese e scrivo con una macchina adatta alla mia lingua. Posso dirglielo con franchezza? Beh, la sua filosofia è piuttosto povera se non riesce a cogliere la differenza sulla quale sto insistendo da un po’: si interpreta di fronte a un dubbio, quando non si sa come agire, non si capisce nulla e si formulano ipotesi, che vengono vagliate ed eventualmente scartate. Quando si agisce, per prendere la vanga o per scrivere a macchina, non si formulano ipotesi, non si pensa: «Proviamo a premere il tasto A, così magari appare proprio quella lettera sul foglio». Tutto qui. Vogliamo parlare di interpretazione anche in questo caso? Va bene, dopotutto il linguaggio è bello perché è flessibile. Ma almeno non mi venga a dire che azione e interpretazione sono la stessa cosa perché ci sono sempre dietro delle attività cerebrali!”
“Il vero problema è che anche la certezza è un’interpretazione, altrimenti la questione morale non esisterebbe. Ci sono naturalmente differenti gradi di esercizio ermeneutico, esiste un’ermeneutica passiva – la necessità di cui parlavo – ma il nodo, in fondo, rimane.”
“A livello fenomenologico no, la certezza non è un’interpretazione. Devo avere dei motivi per dubitare, non per essere certo. Credo comunque che per salvare la questione morale, sia sufficiente ammettere che la certezza, ogni certezza, possa senz’altro diventare un’interpretazione, ossia essere messa in discussione, anche se ciò non significa che essa sia un’interpretazione sin dall’inizio.”
Sullo sfilacciamento conciliante di quelle ultime battute, formulate con arrendevole concisione e proferite col tono, di contro sempre più ampio, della pigrizia, che i due antagonisti, impegnati a distendere tutti i loro pensieri sopra un telaio di mollezza taciturna, parevano pronunciare ormai quasi soltanto in linea di principio, già in silenzio, scrutandole semplicemente, come se fossero le sagome vaporose di paranze d’altura che per scommessa o anche solo per gioco ci si impegni a riconoscere coi loro nomi di varo nel momento esatto in cui, a causa del prolungamento inesorabile della distanza tra gli scafi e la spiaggia, le vele gonfie che li spingono al largo cominciano a ovattarsi di bagliori e dissolvenze nel grembo circonfuso del fondo dell’occhio, il dialogo sembrò aver perso del tutto qualsiasi scopo intellettuale o morale che non fosse il suo puro e semplice accadere. La luce del giorno, appesantendosi ulteriormente, aveva cominciato a infiacchire la voglia e la volontà dei due contendenti; entrambi, sebbene da differenti prospettive, avevano percepito con chiarezza quel crescente ammanco di consistenza e sia l’uno – riuscito finalmente a restituire ogni suo pensiero al dolce ricordo del giovane Axel – che l’altro – tornato a poco a poco a concentrarsi sul suono ottuso e pesante dell’incordatura della racchetta, dibattendosi, ma solo in dissolvenza, tra una sensazione d’incompletezza e il timore non meglio determinabile di aver sbagliato qualcosa o di essersi contraddetto – avevano ripreso a ignorarsi, non solo rinunciando a stabilire un vincitore e un vinto o a trovare quanto meno un accordo, sia pure tacito, su un risultato di pareggio ma, a conti fatti, anche sabotando meccanicamente l’idea che quella specie di conversazione, già chiusa su se stessa e più o meno antiquata, fosse qualcosa per cui valesse davvero la pena di giungere a una qualsiasi forma di conclusione, sia esteriore che interiore; semplicemente, a quel dibattito, condotto fuori strada sul nascere dalla sortita disincantata di Francis e ricomposto poi dal professor Wittgenhauer intorno alle proprie intenzioni originarie come una zucca selvatica avviticchiata ai nuovi tralci di una vite, era toccata la stessa sorte, patetica e poetica, di un palloncino gonfiato con l’elio e trattenuto a mezz’aria da un filo sottile che un movimento appena più precipitoso degli altri faccia inavvertitamente scivolare via tra le dita della mano di un bambino, rimasto fino all’ultimo, grazie al suo peso corporeo, un’ancora affettiva per cui rimandare, dando al tempo tutto il tempo necessario, l’appuntamento finale col grande destino del volo.
(estratto dal secondo volume)
©Andrea Rossetti