“Un gran bel ragazzo, vero?” chiese il professor Wittgenhauer rivolto a Francis facendo ricorso a quel tono di voce mellifluo e apparentemente svagato che era solito adoperare quando, sotto l’effetto euforizzante di un picco di adrenalina accademica, cedeva alla voluttà compulsiva di provocare qualcuno – il ‘comune mortale’ scelto per il ruolo di vittima di turno – al fine di saggiarne la consistenza dialettica e l’energia morale, mentre se ne stava arroccato in un contegno quasi lascivo, nel quale si mescolavano, con sfumature piuttosto capricciose e nondimeno ben riconoscibili, il modello socratico, lo spirito d’osservazione del naturalista e la malignità pettegola tipica di un lettore accanito di cronaca mondana. Finse di lasciarsi sfuggire quella domanda – a bruciapelo e mentre, per sembrare massimamente inoffensivo, continuava imperterrito a verificare col polso la tensione delle corde d una delle sue tante racchette – subito dopo aver carpito con la coda dell’occhio sinistro – che, anche per via degli occhiali rotondi alla Gustav Mahler che era solito portare, aveva visibilmente più grande dell’altro – l’attento languore con cui Francis aveva spiato dall’inizio alla fine il transito quasi etereo lungo il bordo opposto del campo di un giovane magro e riccioluto, coi capelli biondi qua e là incupiti da riflessi rossastri, che indossava una maglia griffata Fred Perry, bianca e orlata di bande viola e verdi, i colori dell’All England Lawn Tennis and Croquet Club, dalla quale le sue braccia glabre sbucavano appena, conserte sul petto, tra le pieghe di un asciugamani adagiato sulla schiena con la grazia di una piccola mantella. Colto alla sprovvista, Francis non riuscì a rispondere con la giusta prontezza e, cosa ben più grave data la circostanza, permise a un rossore d’imbarazzo ancora turbato dagli strascichi dell’emozione appena perduta di salirgli impietosamente su per le guance. Neppure questo trasalimento sfuggì all’occhiuta perfidia del professore, il quale, come un grande attore, avvertì nell’attonita disponibilità di quel silenzio il tempo perfetto per calare una prima battuta decisiva: “È il figlio più giovane di Imbert Lloyd Mills, il magnate delle piattaforme petrolifere, uno dei soci più in vista del circolo, un uomo, su questo lei non potrà che concordare con me, la cui enorme ricchezza, accumulata in anni e anni di affari non di rado portati a buon fine solo grazie all’assoluta mancanza di scrupoli tipica dei grandi squali bianchi della City, non ha sortito alcun effetto benefico sulla sua natura di parvenu, rimasta sempre al palo, greve e oltremodo noiosa; è, per intenderci, il tipico arrampicatore sociale di successo che, dopo aver acquistato a prezzi stracciati un certo numero di antiche dimore nobiliari in lungo e in largo per l’Inghilterra, ovviamente senza farsi mancare nulla della compiaciuta arroganza dell’arricchito che gode nel fare l’elemosina a marchesi e baroni ai quali un tempo avrebbe potuto soltanto lustrare gli stivali, sposa un’appariscente mannequin svedese dalla chioma biondo platino festeggiando l’avvenimento con un party tanto sontuoso quanto, disgraziatamente per lui, celebrativo anche della più triviale cafonaggine. Non crede anche lei che i borghesi divenuti troppo danarosi manchino di armonia, non di buon gusto o di sobrietà eh, che sono prerogative dei bigotti saccenti, a loro volta non meno meschini sebbene in una forma più arcigna, ma di misura, di quell’anelito alla perfezione al quale, pur avendone ogni possibilità , non riescono ad attingere mai? Ha presente il gotico primitivo della Borgogna, quello spoglio ed essenziale delle abbazie cistercensi, con le sue planimetrie sempre identiche, riproducibili ovunque e in qualsiasi situazione utilizzando i più diversi materiali autoctoni? Ecco, per me gli uomini dovrebbero rassomigliargli! Non è un caso, mi creda, che poi al giorno d’oggi si incensino così tanto gli studi tecnici rispetto a quelli umanistici: succede perché, quantitativamente parlando, essi si accordano meglio al mercato del lavoro che, appunto, è un mercato in cui gli esseri umani sono considerati un tanto al chilo, come i sacchi di patate”.
Quel lungo preambolo dal tono conciliante, centrato su questioni talmente vaghe da non poter essere attribuite che all’intento, ordinario e privo di malizia, di scambiare due chiacchiere con un altro socio del circolo, ma anche fitto di parole sempre facili da orecchiare per le molte, studiate virtù di una voce cordiale e quasi flautata e talvolta addirittura buffo, in specie quando gli succedeva d’infiammarsi al fuoco fatuo di uno stravagante socialismo reazionario, era servito al professor Wittgenhauer per saggiare i riflessi del suo interlocutore e all’occorrenza per rassicurarlo, inducendolo così ad abbassare del tutto le difese se non proprio per il subentrare di uno stato di massima confidenza almeno per il diffondersi nella sua mente di una compiacente attitudine alla distrazione. Dal canto suo Francis, ancora scosso dopo aver seguito, trasfigurando infine ogni residuo di languore in uno sguardo di profonda tenerezza, l’intera eclissi del giovane biondo dietro una spessa siepe divisoria, non riusciva a raccapezzarsi tra l’incanto per quell’immagine fissata nella sua memoria dalla lunga teoria dei trasalimenti e il suono incerto della conversazione di Wittgenhauer che invece lo incalzava dall’esterno. Fu a quel punto che il professore decise di cominciare a fare sul serio, trascinandolo a poco a poco fuori dal suo beato stordimento, in un agone bruciante di provocazione e di stizza, di amor proprio ferito e di ovattata insincerità . “Il ragazzo mi pare si chiami Axel,” riprese mentre riponeva nella sacca la racchetta della quale aveva appena verificato a lungo e più volte le condizioni dell’incordatura, “un nome curioso ma incantevole; è la traduzione nordica dell’ebraico Avshalom, Assalonne, e significa ‘il padre della pace’, piuttosto impegnativo, direi, per una creatura dalle sembianze così eteree. Personalmente, mi dica se sbaglio, avrei visto meglio per lui un nome tipo Ariel, tra l’altro dalla sonorità molto simile, che, sebbene anch’esso ebraico e perciò appesantito dai soliti cascami biblici di un significato letterale piuttosto ampolloso come ‘leone di Dio’, per la verità nemmeno pessimo, vista la fluente chioma riccioluta del nostro, sarebbe stato redento dall’allusione al delicato e gentile spiritello dell’aria della “Tempesta” di Shakespeare, un ruolo che non a caso nel teatro elisabettiano veniva affidato all’interpretazione di attori giovanissimi, gli stessi ai quali, per via del divieto di recitare imposto allora alle donne, erano assegnati anche i ruoli femminili…”
A questo punto fece una pausa cercando di misurare nello sguardo di Francis il livello e soprattutto la qualità dell’attenzione che era riuscito a procurarsi con le sue parole e, non senza una breve smorfia di dispetto (che forse, andando inconsciamente a scorticare, fra i tanti lasciti dell’infanzia, proprio l’antica cicatrice di un’insicurezza originata dall’incapacità congenita di rendersi interessante presso gli altri, tradiva, come un aroma più ostico nel profumo di un vino da meditazione, benché attenuato, l’imprevedibile retroscena emotivo del desiderio di una vera amicizia), lo trovò in gran parte ancora assorto, anche se opacizzato da una sorta di fuliggine spirituale, nella decantazione di qualcosa di chiaramente radioso e appartato.
“Comunque”, riprese di slancio facendo leva su una sovrabbondanza d’aria inspirata nei polmoni attraverso il naso con un ampio soffio nel quale aveva capovolto un sospiro, “non fatico a comprendere che si possa perdere la testa per un simile Antinoo, a prescindere dal sesso al quale si appartiene. Di fronte alla bellezza assoluta anche l’attrazione omosessuale diventa, se non giustificata, perlomeno comprensibile.”
A quelle parole Francis si sentì come risucchiato fuori dalla sua inerzia e, volgendo la testa verso il professore dopo averla inclinata di circa 30° rispetto al busto, gli chiese con un’espressione corrucciata: “Perché, secondo lei cosa c’è di quasi sempre incomprensibile e addirittura – pronunciò ‘addirittura’ marcando appena la voce con una blanda enfasi sarcastica – di mai giustificato nell’amore omosessuale?” Wittgenhauer ghignò, facendo spallucce e dondolando il capo, con la medesima faccia eccitata e soddisfatta che fa il pescatore quando sente lungo la canna lo strappo del pesce che ha appena abboccato; più o meno la stessa in cui oramai egli lasciava sempre abortire quello sbiadito desiderio di amichevole prossimità con uno qualsiasi dei suoi simili che aveva invano covato da bambino e di cui ancora gli indugiava dentro qualcosa di comparabile a quanto di solito resta nella memoria della primissima cotta infantile, alla quale, una volta diventati adulti e data l’intuitiva impossibilità di recuperarne il palpito in modo credibile mediante il ricordo per consegnarlo alla concretezza di un vero rimpianto, ci si adatta a concedere al massimo la condiscendenza vaga di un sorriso di nostalgia, dedicato tra l’altro più all’infanzia in generale che all’innamoramento vero e proprio. “Posso assicurarle”, riprese, “che io non ho pregiudizi nei confronti degli omosessuali, si figuri che ho tra di loro alcuni dei miei conoscenti più stimabili, ma ciò non toglie che non si possa né si debba ragionare per simpatie o per partito preso. Le faccio un esempio: poniamo il caso del possesso di una vanga. Con essa si può piantare un paletto, difendersi da un’aggressione, lanciarla come fosse un giavellotto, ma da tutto questo, ovvero le varianti d’uso che derivano dalla possibilità d’interpretare creativamente la funzione, non si dedurrà mai che la funzione della vanga non sia quella di vangare. La vanga, infatti, ha una sola funzione: una sola cosa è la vanga ovunque ci sia una vanga. Ciò non toglie che esistano esperienze difformi e creative della vanga stessa, ma esse sono contingenti, relative alla particolare necessità di qualcuno d’intendere diversamente la vanga. Tali esperienze sono tutte legittime, perché hanno a che fare con la vanga – diciamo che la vanga si presta all’uso, ecco – ma non sono affatto la funzione per cui la vanga è una vanga. Affinché una di queste interpretazioni creative possa cancellare la funzione occorrerebbe mettere in discussione lo statuto della vanga in ordine a quell’interpretazione, far sì, cioè, che ovunque ci sia una vanga essa sia quell’interpretazione in senso funzionale, cioè al di sopra di tutte le altre possibili. D’altro canto potrebbe anche accadere che la funzione della vanga si smarrisca, che non sia più riconoscibile come tale, ma affinché ciò si produca è necessario che la vanga torni a essere una cosa qualsiasi, che cessi cioè di essere riconoscibile come vanga divenendo indeterminata. Ora, mi pare evidente che nessuna delle due condizioni si è prodotta rispetto alla sessualità . A monte c’è la funzione riproduttiva, il fatto biologico. La sessualità è la modalità funzionale della funzione procreativa: serve ad assicurare la sopravvivenza della specie mediante l’incontro fra patrimoni genetici maschili e femminili. Tuttavia essa prevede anche una componente genitale, che è, appunto, la modalità funzionale della funzione sessuale. Anche questa componente ha a sua volta una modalità funzionale: il piacere. Il piacere è quindi il modo in cui, a prescindere da tutte le legittime interpretazioni che se ne vogliono dare, la componente genitale è ovunque se stessa; questa componente è, a sua volta, il modo in cui la sessualità è ovunque tale; la sessualità , infine, è il modo in cui la procreazione è ovunque ciò che è. La procreazione è dunque la funzione biologica oggettiva e riconoscibile di questo processo. La modalità della funzione procreativa è la funzione stessa e tuttavia ciò non comporta un rigore meccanicistico visto che le varie modalità funzionali consentono d’interpretare il processo in senso libero e creativo, fungendo anche da limite alla funzione e comportandone l’ecologia e la responsabilità . Quando però una modalità funzionale cancella del tutto la funzione, ovvero, per tornare all’esempio iniziale, nel momento in cui, in una particolare fattoria, la vanga sia utilizzata soltanto, dico la prima cosa che mi viene in mente, per cacciare le faine e le volpi dai pollai, senza tuttavia che essa smetta di essere ciò per cui una vanga è ovunque tale, il processo risulta interrotto, perde la sua armonia, disconosce la funzione e diviene strutturalmente antifunzionale. Ecco perché per l’omosessualità si può parlare di blocco, di autoreferenza genitale, di autoerotismo sublimato. E da un punto di vista clinico, mio caro amico, un’incapacità strutturale, psichica o fisica che sia, rispetto a un’oggettiva funzione biologica ha un rilievo patologico più che certo!”
A quel punto Francis, disorientando il suo interlocutore che, dopo averli pregustati a lungo, era preparato solo ai toni forti di una replica scomposta e nervosa, agì di nuovo secondo uno schema mentale al quale ricorreva di frequente in circostanze simili e che, come quel guizzo di luce mattutina reso momentaneamente un abbaglio dallo specchio inclinato di una toilette solo per gli occhi ancora semi-addormentati di una solitaria e svogliata pettinatrice di se stessa, lo rendeva ogni volta, nonostante egli mancasse del tutto di disincanto, incredibilmente capace di attingere la sensibilità più profonda di un uomo disincantato. Si era lasciato condurre a poco a poco, senza nemmeno rendersene conto, dalla sua istintiva devozione per quei pensieri marginali che soltanto di rado si presentano conformi a una vera e propria sottigliezza – e magari anche tagliati per svolazzare tra le altre parole nella più compendiosa delle solitudini – essendo al contrario quasi tutti facilmente individuabili poiché costituiti dall’intreccio di un numero comunque considerevole di cenni, concetti e suggestioni; pensieri che il filo ben teso dei discorsi più ambiziosi e costruttivi deve per forza di cose, intanto che procede, abbandonare qua e là come semente di seconda scelta, e sui quali Francis, quando avvertiva il bisogno quasi sensuale (riconoscibile all’istante dall’affiorare sulla sua faccia di un sorriso caratteristico, ibridato con una stravagante allegria infelice) di non interrompere il piacere prepotente che gli veniva dal restare concentrato sul pigro sciabordio delle sue riflessioni più profonde con le quali carezzava nella sua mente una sorta di insenatura protetta, consacrata a un’infinità incantatrice di memorie liete, desideri appena nati e scalpitanti progetti senza capo né coda, si era abituato a spostare il fulcro di qualsiasi discussione che, a prescindere dall’importanza, in questo caso anche provocatoria, dei suoi contenuti, per il solo fatto di cominciare in un momento per lui emotivamente sbagliato lo obbligasse a una rapida deviazione su un oggetto più modesto, un dettaglio subito adattabile a un impegno intellettuale contenuto e quindi in grado di convivere nel migliore dei modi con la superficialità del ragionamento a sua disposizione, ma sempre da reperire, in ogni caso, nell’ambito dello stesso contesto così da sottrarsi alla protesta, spesso tanto vivace quanto infastidita e non di rado sospettosa, che suscita inevitabilmente nella controparte chi dia l’impressione di cambiare discorso o, peggio, di voler tagliare corto; in questo modo Francis riusciva a preservare nel suo complesso una pace ambivalente: prima di tutto quella in cui lasciava il flusso interiore dei suoi pensieri preferiti, e al tempo stesso anche l’altra, nella quale all’esterno, pur senza interromperlo mai, egli addomesticava il dialogo in una grande digressione camuffata, scansando così, insieme al malumore e alla diffidenza del suo interlocutore, anche ogni possibile accusa di maleducazione.
“Se uso una vanga per rompere la schiena a qualcuno,” disse cantilenando le parole grazie a un tono di voce placido e sommesso, una specie di minima sonorizzazione del respiro che, lungi dall’immedesimarsi nel soffio col quale si attizza il fuoco, rassomigliava piuttosto a quello con cui si spegne un fiammifero o si smorza una candela, “non interpreto la vanga come mazza, semplicemente la prendo e la uso come tale. E la questione dell’uso che determina il tipo di oggetto è più complicata di uso proprio e improprio…”
“Ma certamente mio caro amico!” replicò Wittgenhauer non senza tradire in un’increspatura dissonante dell’esclamazione la sua istintiva sorpresa per quelle parole del tutto impreviste. ” Ovvero interpreta la vanga come ciò con cui si può spezzare, e si spezza, la schiena di qualcuno. Questo può avvenire perché, come ho detto, la vanga si presta all’uso. A rigore, quindi, parlare di uso improprio è sbagliato e, infatti, io non lo faccio. Tuttavia l’uso non è la funzione e per questo se lei usa la vanga per spezzare la schiena a qualcuno non produce alcuna alterazione nella funzione, che è ciò per cui la vanga è ovunque una vanga. Che la funzione sia proprio questa è poi stabilito nel pregiudizio ermeneutico: noi guardiamo alla vanga dal punto di vista dell’uso che se ne fa, come utensile, dal momento che dell’essere vanga della vanga nulla si può dire. Ora, la cosa in sé che è la vanga in ordine all’uso che se ne fa è appunto la funzione, l’identità funzionale della vanga con la vanga.”
“Non è affatto vero che utilizzando la vanga per colpire il tal dei tali sulla schiena io, e qui cito esattamente le sue parole, la interpreti come ciò con cui si può spezzare, e si spezza, la schiena di qualcuno! Io non interpreto nulla! Interpretare vuol dire, grosso modo, agire seguendo una concatenazione di idee del tipo: – cos’è questa cosa qui? come posso utilizzarla? potrei tentare di adoperarla per spezzare la schiena a qualcuno! boh, proviamo un po’… sì, ci si riesce: perfetto! – Afferrando la vanga, o un libro o un mattone, per percuotere qualcuno io non mi pongo interrogativi e problemi vari, non interpreto. La critica dell’ermeneutica non consiste tanto nell’argomento che l’interpretare non modifica la percezione o l’essere delle cose, quanto piuttosto nel prendere atto che non tutto è interpretare.”
“Eh no, perché si interpreta sempre a partire da un’interpretazione. Anche un gesto è un’interpretazione perché definisce quella cosa rispetto a sé e il fatto che l’interpretazione debba poi essere verificata rispetto all’intenzione – riuscirò o meno a spezzare con la mia vanga la schiena di quel tizio? – non cambia poi molto, in quanto un’interpretazione è tale indipendentemente dalla conferma o dalla smentita dell’intento che l’ha originata. La critica all’ermeneutica che faccio io è invece la seguente: tutto può essere interpretato ma non tutto deve essere interpretato! L’ermeneutica giustifica un concetto di verità ma non fonda quello di libertà , dice ciò che puoi ma non ciò che devi, è potere senza dovere. Quindi è intrinsecamente totalitaria e, infine, amorale.”
Senza saperlo, con queste parole, che non mancò di gustare nella bocca schioccando la lingua sul palato col medesimo orgoglio di un grande chef già pienamente soddisfatto al primo assaggio dalla squisita perfezione della pietanza che ha appena cucinata, il professore offrì a Francis l’occasione di dare una piega ulteriore a quel loro dialogo indefinito, come se si trattasse di un fazzoletto da stirare sempre meglio così da poterlo infilare nella tasca dei pantaloni con l’assoluta invisibilità suggerita dai precetti dell’eleganza maschile, ritoccandolo, secondo il solito schema, in funzione di un’angolatura maggiormente determinata rispetto alla precedente, dalla quale poter godere, con una più estesa, lunare sollecitudine, dell’abbandono alla vista e alla deriva sul mare tranquillo dei veri pensieri prediletti.
(estratto dal secondo volume)
©Andrea Rossetti