L’UOMO DISINCANTATO – La mia amata, la mia detestata, Melissa McNult (5)

Se all’esterno, dopo la confessione resami da Sean in merito alla cattiva opinione che sua madre si era fatta su di me, non era in effetti trapelato nulla, a parte l’ambiguità del silenzio in cui per autodifesa mi ero istintivamente recluso, un silenzio che persisteva inesorabile, sospeso sul convulso contrasto febbrile tra il gelo e il bollore di due specie di rabbia, tanto diverse tra loro quanto complementari, dal quale ogni mio sentimento scaturiva in pratica già abiurato perché impedito a manifestarsi, e che svolgeva per contrasto nelle mie orecchie la funzione di un amplificatore, simile a quelli delle chitarre elettriche, che saturava e distorceva ogni rumore circostante in una sinfonia, ora ovattata ora netta, di sibili e detonazioni, al cui interno il crepitio quasi gentile di una piccola screpolatura sull’intonaco di un muro sfiorata per caso dai polpastrelli della mia mano poteva diventare indistinguibile dal frastuono che fa una crepa profondissima mentre si apre su una parete portandola al crollo durante un terremoto, nella mia mente soffocata da una spessa coltre di pensieri mescolati tra loro, invece, mi era davvero difficile sorprendere alcunché di esplicitamente sentimentale o anche solo di appena emotivo che non recasse i segni avvilenti – perlomeno un angolo sgualcito o un filo smagliato – del trauma poc’anzi sofferto. E proprio mentre mi trovavo in balìa di quello stato che boccheggiava forte ai margini di uno sfinimento a modo suo vivido e multiforme, subito dopo aver fatto esperienza delle insospettabili virtù dell’insincerità propria delle favole, all’alba ancora solo tiepida del mio embrionale disincantarmi, un improvviso sbalzo d’umore, diverso da tutti quanti gli altri, mi aveva anche messo di fronte alla certezza di avere travisato sin da principio, per un imprevisto errore di prospettiva che il giudizio abitudinario di un qualsiasi estraneo, in quanto tale inadatto a valutare questioni legate all’estrema singolarità esistenziale – in tal senso inesplorabile – dei modi, se non addirittura dell’essenza, del disincanto, avrebbe senz’altro attribuito, sbagliando per difetto, alla mia giovanissima età (mentre invece tutto quanto va a costituire il presupposto di un uomo disincantato è come una parodia fedele dell’anima immortale, e filtra quindi nel singolo individuo subito e interamente dallo spirito dell’epoca alla quale questi appartiene per poi non seguire in alcun caso, nel suo caotico concedersi e manifestarsi in forma di coscienza, le generiche maturazioni lineari di stampo anagrafico date per scontate dagli schemi psicologici filistei, ma ne crea di volta in volta di proprie e sorprendenti), i miei stessi sentimenti per Melissa, apparentemente circoscritti ed esauriti nell’ambito, che però, per funzionare a dovere, avrebbe poi dovuto essere anche del tutto autonomo, di un impulso semplice di inebriata tenerezza, privo di ambizioni e prospettive e pertanto appagabile secondo questa sua natura già in segreto, al chiuso dei miei soli sguardi. In cosa consisteva dunque l’irriducibile eccezionalità di quello sbalzo d’umore che, sinistro e provocante dentro di me nel riprodurre la medesima vibrazione sonora di una sottoveste che viene strappata, aveva a tal punto illuminato il mio intuito da indurlo automaticamente a sconfessare, e in modo tanto repentino e categorico, la possibilità che si fosse verificato un semplice accostamento di fatti privi di una diretta connessione tra di loro, una concomitanza cioè del tutto neutra fra un tenero sentimento, giustificabile e già perfettamente gratificato dalla contemplazione fine a se stessa del proprio oggetto, e il precipizio di drammatica sofferenza nel quale avevo cominciato a franare dopo essere stato messo a parte dell’insospettabile, maligno disprezzo nutrito nei miei confronti proprio da colei che di quella contemplazione era l’amatissima destinataria? Perché, senza doverci nemmeno riflettere sopra (cosa che, tra l’altro, muovendomi ancora sul piano delle sensazioni non sarei stato comunque in grado di fare), ero in fondo così sbrigativo nel connettere il mio dolore a un rifiuto, proprio e solo in quanto proveniente da quella donna senza cuore? Si era venuta a creare nei miei pensieri una sorta di placenta ideale nella quale galleggiavano – quasi evocando il corteggiamento di due serpi eternato a seguito di un mortuario bagno in formalina – la mia ferita aperta e l’immagine di Melissa, sotto forma di due diversi sentimenti dolorosi congiunti con essa attraverso l’intreccio disincantato di altrettanti cordoni ombelicali. Nel rendersi tangibile in quel contesto, il disincanto – che più avanti avrebbe naturalmente cominciato a svolgere in me anche la funzione di precisa unità di misura della sofferenza e al tempo stesso, contenendone nel migliore dei modi possibili le onde di piena emotiva come pure gli straripamenti, quella di argine perfetto in grado di adattarla alla portata piuttosto modesta della natura umana considerata come dato di fatto e non più attraverso le lenti deformanti della metafisica o della vanagloria morale – mi aveva indotto ad appurare, per sensazioni dal nitore crescente, che gran parte della mia sofferenza, ovvero tutta quanta la sua eccedenza straziante, si era manifestata, appunto oltrepassando gli argini, solo perché in realtà la mia contemplazione di Melissa non era stata mai davvero tale e ancor meno spinta soltanto fino ai suoi massimi confini accettabili e naturali, che sono poi quelli comuni del desiderio, ma, fuori dal controllo del disincanto, si era romanticamente riversata nella pienezza dell’innamoramento rendendo in questo modo esplosiva l’angoscia per il rifiuto e l’offesa, giacché l’amore, specie se sproporzionato a causa dell’ingenuità dei suoi slanci, nutre aspettative che la contemplazione non conosce. D’altra parte, anche l’ostilità di Melissa per me – se, come ho ormai tutte le ragioni di ritenere, proveniva da una creatura appartenente alla mia stessa specie, quella malinconicamente accarezzata da uno strano richiamo evolutivo, una sorta di onda calda di luce crepuscolare alla quale le ultime fondamenta ancora salde della modernità iniziavano appena allora ad abbandonarsi, come al liquido amniotico, e psichedelico, di un’aurora ebbra di solo paesaggio – era a sua volta il ritratto fedele di un fraintendimento: dopo aver equivocato la vera natura della mia ammirazione, nascondendomene, sebbene senza malizia, il difetto originario, proprio a causa di un errore del tutto simmetrico non ero stato capace di decifrare quale essenziale verità contenesse il disprezzo che quella donna manifestava nei miei confronti, al di là del suo contingente dispiegarsi nella favola protettiva e materna delle esortazioni rivolte al proprio figlio per convincerlo a smettere di frequentarmi. In quel dolore terribile, amplificato a dismisura dalla rete di malintesi che l’aveva imbastito, io avevo scontato in realtà la mia prima esperienza e il conseguente, indiretto apprendimento di un aspetto nemmeno troppo oscuro del disincanto: per una sorta d’istinto di specie (ma questa definizione è senz’altro approssimativa) che nel corso della mia vita mi sarebbe capitato spesso di sperimentare, infatti, i temperamenti disincantati non si cercano mai tra di loro ma possiedono la facoltà di riconoscersi già dopo pochi sguardi – nel fulmineo arco di tempo che va dal sospetto immediato all’assoluta certezza – e utilizzano tale predisposizione quasi animalesca proprio per mantenersi a debita distanza l’uno dall’altro. Ciò perché la ricombinazione dei geni è necessaria negli incontri tanto quanto lo è negli accoppiamenti. E proprio questo era in sostanza ciò che, a monte del suo tentativo (che pure era concreto) di affossare l’amicizia tra me e Sean, aveva fatto Melissa, allontanandomi emotivamente prima di tutto dalla sua persona, in un modo tanto energico e dagli esiti senza alcun dubbio irreparabili perché motivato in fondo dal presagio del mio ingenuo desiderio di ostinazione. Ma non è tutto: il disincanto, che differisce di molto, per ampiezza e complessità, sia dalla nausea esistenziale che dall’indifferenza morale, non esclude affatto l’incanto (semmai se ne agghinda e lo addomestica per scansare gli incagli della contraddizione) ma non lo può tollerare quando è incanto di sé e di conseguenza, per una ragione analoga a quella che induce un uomo disincantato a disinteressarsi sino al fastidio di chiunque sia uguale a lui, una prospettiva disincantata non sarà mai percepita come incantevole da chi per natura e vocazione è in grado di assumerla o anche semplicemente di riconoscerla.

(estratto dal primo volume)

©Andrea Rossetti

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