L’UOMO DISINCANTATO – La mia amata, la mia detestata, Melissa McNult (1)

I signori McNult erano gente che veniva dall’Irlanda. Avevano aperto una piccola lavanderia nei pressi dei mercati rionali, accanto alla macelleria ebraica, e tiravano avanti alla meno peggio, con quella dignità sempre un po’ accigliata ad arte al fine di custodire meglio l’amor proprio che è tipica degli irlandesi, senza lamentarsi e senza fare salti di gioia, ma trovando di tanto in tanto anche il tempo per sentirsi in qualche modo benedetti da Dio.
Il padre di Sean, il signor Anthony, era un uomo alto e magro, con due folti baffi neri che impigliavano nel loro fatale contegno ogni sorriso disegnato dalle labbra sottili. Era figlio di contadini e – in giro lo si diceva sempre piuttosto sommessamente ma anche con assoluta sicurezza – un partigiano cattolico della causa nordirlandese. Da lui Sean aveva ereditato due grandi piedi un po’ sproporzionati dei quali si dichiarava spesso molto orgoglioso, non mancando di aggiungere ogni volta che è proprio grazie ai piedi che l’uomo, nell’atto di camminare, si fa la prima idea veritiera di cosa sia la libertà.
Quanto alla signora Melissa, la madre di Sean, ne ero segretamente innamorato; perché all’epoca avevo l’impressione che il fulgore un po’ aulico delle più belle tra le giornate londinesi, quelle senza nebbia né pioggia, attraversate d’ora in ora con gradazioni diverse dai ricami scintillanti della luce che, nella loro rapida incostanza, un vento calmo faceva appena vibrare sopra la superficie gelatinosa e cristallina del paesaggio con la stessa mansuetudine di fondo che mostrava allorché, alitando, trapassava da parte a parte l’indolente armonia e il disegno accurato delle tele dei ragni, sembrasse fatto apposta per lei, per rendere cioè il giusto onore alla sua pelle, pallida e un poco arrossata soltanto lungo gli zigomi e sopra le guance, e quindi per fasciare la naturale tensione dei seni diritti, per disegnare nello spazio l’arco docile dei suoi fianchi torniti.
Sin dal nostro primo incontro, in verità piuttosto fugace per via delle sue maniere spicce, ingentilite a stento dall’educazione solida ma disattenta di chi ha sempre ben altro a cui pensare, ero stato colpito dal colore rosa corallo delle sue unghie, che erano tutte allo stesso modo brillanti e levigate, a forma di mandorla come il perimetro mistico della maestà nell’iconografia cristiana, anche se poi le mani modeste da casalinga piccolo borghese – un po’ troppo grandi, leggermente violacee, con le nocche ruvide e screpolate, le dita ossute e i contorni netti, disegnati senza particolare armonia né morbidezza – non mi sembravano una cornice degna della loro perfezione. Gli occhi al contrario avevano una profondità non comune che ne accentuava il mistero ingenuo e quasi crudele (oggi, concedendomi il lusso di un po’ di languore art nouveau, l’avrei definito da Salomè danzante, ma allora il gioioso caos emotivo al quale volentieri e completamente mi abbandonavo mi lasciava libero di godere di certe sensazioni nel pieno tepore infantile del loro anonimato): sebbene fossero in realtà color terra di Cassel, essi, soprattutto a causa della maliziosa lunghezza della corona delle ciglia, davano l’impressione di essere invece inesorabilmente neri; e si posavano ovunque schietti e veloci, ammaestrati da un’intelligenza spigolosa e incostante, senza mai esitare tuttavia di fronte alla voglia e all’occasione di fissarsi su qualcuno, all’apparenza solo per compiacere la fragile stasi di un momento di stanchezza o di distrazione, ma non mancando altresì di lanciare, protetti dal loro languido nascondiglio, la provocazione sfacciata di un’indagine lampo che scandagliava per intero il proprio oggetto, in un certo senso attirandolo a sé non appena, a un battito più deciso delle palpebre, decideva di rapprendersi nello slancio irrefutabile di uno sguardo superbo. La bocca, forse un po’ troppo piccola, era nondimeno ben disegnata, carnosa soprattutto per via del labbro inferiore, appena ripiegato verso il mento sporgente come quello di una bambina quando tiene il broncio, che lei era solita mordicchiarsi ogni qual volta le circostanze le offrivano l’opportunità di starsene a lungo in silenzio (cosa che del resto già la sua indole taciturna le facilitava in partenza), e si allungava poi in modo inatteso nei non frequenti ma sempre radiosi sorrisi, giungendo con le due estremità fin sotto gli zigomi marcati e scoprendo, in un’espressione quasi bambinesca, la dentatura minuta (non nascondo di aver dedicato proprio alla bocca della signora Melissa le mie primissime fantasie erotiche – per così dire – più raffinate). I suoi capelli erano sempre pettinati con cura ma senza ricercatezza: separati a metà da una riga sottile che seguiva la curva della testa, essi discendevano ordinati in due soffici bande, talmente vellutate e consistenti da sembrare altrettanti nastri di seta nera sui quali, come bassorilievi d’avorio, spiccavano armoniosamente i padiglioni delle orecchie, e andavano quindi a ricongiungersi dietro la nuca in uno chignon molto morbido che lasciava alcune ciocche libere di dondolare, perfettamente lisce sulla sommità e, intorno a metà della loro lunghezza, appena arricciate a spirale lungo le tempie e fino alle guance, in un’acconciatura che nel complesso si sarebbe potuta definire la versione moderna e semplificata di quella di Madame Récamier nel suo ritratto dipinto da François Gérard.
Mi eccitava guardare i suoi talloni nudi, lasciati scoperti a schioccare come piccole fruste passo dopo passo dagli zoccoli di legno coi tacchi sempre piuttosto alti che amava calzare quando si trovava in casa; e mi piaceva molto quando, mostrando la più assoluta noncuranza per chiunque fosse nei pressi in quel momento, una volta rimasta scalza, si allungava sul divano del salotto lasciando che il suo vestito scivolasse verso l’alto, spesso ben oltre le ginocchia, e inforcava i piccoli occhiali da presbite con la montatura in tartaruga prima di immergersi, distintamente appartata da ogni cosa, nella lettura di un romanzo alla moda. A volte poi, mentre leggeva, poteva capitare che si addormentasse, e allora il suo respiro, simile al soffio calmo e profondo dell’ultimo tratto sottile di un’onda marina venuta in proscenio, sulla spiaggia, a eseguire una specie di liquido inchino teatrale prima di ricongiungersi per sempre alla linea del resto dell’acqua, assumeva una concretezza minimale, rannicchiandosi nel semplice movimento del seno bianco che sollevava e rilasciava – tra la tensione lieve della spinta del torace verso l’esterno e il cullante abbandono delle mammelle a un reggiseno appena troppo ampio – i bordi della scollatura, senza smettere comunque mai d’essere un suono, un’anima d’aria tagliente richiamata dalle sue narici come l’eco girovago del mondo nella spirale logaritmica segreta di una conchiglia vuota.
Un pomeriggio, durante uno di quei corrucciati ma incantevoli giorni di disgelo in cui rannuvolamenti color ruggine e bistro si alternavano con raggiante frenesia a squarci sempre più larghi di sereno, questi ultimi avviluppati in superficie da una rorida luce azzurrina che si rifletteva, a volte offuscando la vista, dentro le pozzanghere, sopra l’asfalto e nei vetri delle finestre schermati come specchi da chimerici veli d’argento, e mentre l’acqua scivolava lungo la corteccia degli alberi e la neve ghiacciata si scioglieva sul lento riapparire delle strade e dei tetti, la signora McNult se ne stava appunto come sempre assopita sul divano, con un libro qualsiasi reclinato in grembo, tra le dita e l’ombra della mano sinistra, e all’improvviso le ondulazioni gonfie della tenda, attraversata per intero da un assorto e vivace scintillio, una specie di piccola aurora, avevano propagato su di lei, quasi congiungendo l’abito e la pelle, una fantasmagoria di riflessi cangianti, inducendola a sorridere nel sonno per l’inattesa dolcezza di quel tepore ma anche davvero e soltanto per me, che intanto, come sempre perseguitato dalla sensazione di essere fuori posto, per farmi coraggio ascoltavo imperterrito lo sgocciolio delle acque invernali che cadevano allegre su Londra dando ufficialmente inizio alla primavera.

(estratto dal primo volume)

©Andrea Rossetti

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