L’UOMO DISINCANTATO – La Luna Nera (6)

La notte successiva, il consueto sogno nel quale incontravo Miss Lilith Langtry, godendo ogni volta del piacere immediato che l’eccitante comparsa alabastrina del suo corpo nudo sotto il soprabito aperto – sempre circonfusa d’imprevedibilità soltanto per un gioco onirico d’inganni e di apparenze – induceva a sbocciare con tutta la gentilezza inflessibile di un comandamento naturale dal fondo ingenuo della mia pubertà, fatta dal canto suo in quel momento solo di teneri e carnosi abbozzi – tra l’altro non poco ingarbugliati – di strane inflorescenze sentimentali qua e là tutte spruzzate ancora di acerbe aspettative infantili, si era in un certo senso dilatato; aveva scavalcato, cioè, sebbene senza alcun impeto e con la stessa eleganza sicura che un tempo avrebbe mostrato un ventaglio prezioso – uno di quelli, di fattura orientale oppure veneziana, che mia madre amava acquistare e chiudere in teche ogivali dalle cornici d’avorio che poi appendeva alle pareti di casa col tipico modo sfiziosamente capriccioso e disordinato di chi ignora di dover morire giovane – nell’atto di schiudersi, secondo i ritmi dettati da un tacito ma indefettibile cerimoniale, davanti al volto di una regina o di una favorita del re, gli argini del suo flusso abituale, dandomi quindi, nel sonno, la sensazione di trovarmi immerso in una foschia profumata, una specie di nebbia mattutina intrisa di fumi d’incenso, eccitanti e religiosi, dalla quale spiccavano comunque i contorni d’oro e di bronzo di innumerevoli covoni di fieno sparsi nella campagna secondo l’ordine percepibile ma privo di soluzione di un enigma, e di essere in cammino lungo una strada contorta, che però una singolare, marginale lontananza rendeva flessuosa, e a suo modo accogliente e leonardesca, come se si trattasse del ricordo esageratamente felice di una passeggiata tra le volubili fioriture di un paesaggio immaginario.
Lungo quella strada, che continuava e mostrarsi deserta, come a voler infiggere con profetico sadismo nel flusso, altrimenti troppo spensierato, del mio bel sogno danzante almeno un minimo di dolore potenziale, fosse pure quello aguzzo di una sola, piccola freccetta da passatempo da pub irlandese, scoccata da un angolo periferico e invernale del mio inconscio, indubbiamente gonfio però di ferocia autoimmune e scosso da un’inesorabile vocazione genetica alla tempesta, per incombere, sotto forma di distrazione latente, sui lasciti emotivi di un trionfo della logica dal canto suo invece paradossalmente tranquillo (anche se devo ammettere un po’ troppo baldanzoso e perciò sospettabile senz’altro di superbia) che, confermando alla perfezione ogni mio calcolo, mi aveva infine condotto a individuare quale fosse l’abitazione di Miss Lilith, ovvero il luogo che in quel momento, quasi incatenando in modo inverosimile il senso dell’esistenza generica del mondo a quello specifico della mia vita, era anche l’origine luminosa della mia unica (novissima!) passione possibile, mi sentivo accompagnato dall’odore asprigno dei cipressi, misto all’altro, più penetrante ancora, delle goccioline di resina dei pioppi neri, nelle quali non potevo non riconoscere le lacrime di dolore di Egle, Lampezia e Fetusa, le tre sorelle dal volitivo ma inesperto Fetonte, annegato nel Po dall’ira di Zeus dopo il suo disastroso tentativo di condurre da solo attraverso il cielo il carro del Sole. Era in sostanza uno stordimento olfattivo che mi induceva ad affrettare il passo in direzione dell’unico casale che avevo di fronte; uno dei tanti, immerso però in una particolare solitudine diroccata e campestre, sempre avvolta dal canto furioso delle cicale.
Al di là del muro di cinta, malmesso ma solido, completato in altezza da un’intricata siepe incolta e interrotto, in corrispondenza del vialetto d’ingresso, da due pilastri robusti, sormontati da altrettanti elementi decorativi di pietra a forma di ceste di frutta aggrediti su tutta la loro superficie da muffe e da licheni, ai quali erano fissati, mediante dei grossi cardini oramai completamente distorti e arrugginiti, i due battenti del cancello, fatti di assi di legno e appena accostati, c’era un giardino abbandonato che a prima vista, tuttavia, non sembrava sgradevole. Era ripartito in quattro piccoli terrazzamenti: il primo era grigio e per intero malamente lastricato; il secondo, invece, comprendeva alcuni alberi di lillà delle Indie, dal fusto lungo e dritto e dalla chioma arrotondata sotto ai quali potevo scorgere alcune piante di rosa rampicante, cresciute quasi per miracolo senza alcun appoggio, e qualche ciuffo di zinnie; il terzo si presentava suddiviso in tre larghe aiuole centrali e due, appena più strette, lungo i lati maggiori, con qualche pianta di rosa in ordine sparso e, in un angolo, un altro alberello di lillà delle Indie sotto il quale era cresciuto un gran numero di polloni che avevano creato una specie di secondo arbusto tutto nuovo; nell’ultimo poi c’era un fico, che con la sua chioma, quando la stravagante nebbia profumata d’incenso che mi aveva accompagnato sino a quel momento aveva infine cominciato a diradarsi, sbrogliata a poco a poco dall’espansione delle feritoie di una luce solare sempre più determinata e cocente, pareva stare lì solo per offrirmi frescura con la sua ombra, e ancora una piccola vite, sdraiata invece in posizione centrale, e, davanti a questa, quasi a godere della sua protezione, delle peonie, e un piccolo catino d’acqua sudicia, rivestito di minuscole spore che si agitavano all’ombra dei riflessi delle piante; intorno, disordinatamente, ciuffi sparsi di rosmarino, salvia e lavanda, gli unici in grado di osteggiare l’avanzata inesorabile delle erbacce infestanti.

(estratto dal primo volume)

©Andrea Rossetti

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