L’UOMO DISINCANTATO – La Luna Nera (2)

Il giorno successivo mi ero svegliato molto prima del solito, tormentato sia dal desiderio di rivedere quella ragazza che dal timore di non riuscire più a incontrarla, giacché, non conoscendo di lei nient’altro che l’aspetto, non ero in grado di pianificare una strategia che, pur senza ambire alla sicurezza del successo, mi garantisse quanto meno di nutrire qualche aspettativa concreta in merito al risultato finale. Avevo quindi consumato in fretta la mia prima colazione simulando una gran fame per non dare troppo nell’occhio e, sempre dispensando a tutti melensaggini e cortesie allo scopo di evitare ogni possibile intralcio o perdita di tempo, con la scusa di voler arrivare un po’ prima a scuola per ripassare in santa pace la lezione di storia in quanto – e qui avevo letteralmente improvvisato puntando tutto sull’importanza assoluta che nella mia famiglia si attribuiva da sempre alla serietà negli studi – non era escluso che il professore decidesse all’ultimo momento di interrogare qualcuno, mi ero lanciato giù per le scale e quindi in strada. Non avevo altra speranza che quella di un nuovo incontro fortuito con la mia Miss Lilith Langtry, percorrendo passo dopo passo la medesima strada del giorno precedente e calcolando con un’accettabile approssimazione quanto spazio era necessario che presidiassi nell’arco di tempo più propizio alla replica del suo passaggio accanto a me. Mi ero quindi mosso avanti e indietro, percorrendo in successione, a perdifiato e senza sosta, grazie alla favorevole geometria dello spazio e come se fosse la corolla stilizzata di un fiore ideale, il perimetro del poligono formato dalla rotazione del triangolo isoscele avente l’altezza calcolata sul massimo spostamento che potevo compiere nello spazio di un minuto e il vertice dei due lati congruenti che coincideva invece col centro della circonferenza in cui il poligono era inscritto nonché col punto esatto del mio primo incontro con la mia nuova dea, senza mancare di sostare ogni volta in cima alla strada per scrutare prima in direzione del tenue saliscendi frontale e quindi, ansiosamente, verso destra e poi a sinistra, fino all’intersezione delle tre strade ai miei piedi. Tanta disperata passione e tutti questi calcoli frenetici alla fine erano stati ripagati perché la sua sagoma per me già inconfondibile di primo acchito era apparsa oltre l’estremità massima dell’orizzonte sulla mia sinistra, svoltando in direzione del punto esatto in cui la stavo aspettando. Avrei voluto correrle incontro ma invece mi ero mosso piano, razionale come al solito, nascondendo con cura tutte le precedenti geometrie e l’insistenza del mio desiderio dietro l’esausto riparo di un altro incontro casuale. I suoi capelli neri oscillavano bellissimi e soffici sulle sue spalle e stavolta un girocollo d’oro bianco si confondeva, pur scintillando, alla sua pelle diafana.  Le estremità dei nostri occhi si erano toccate di nuovo e lei aveva serrato le labbra come la prima volta, sorridendo in segreto ma senza indifferenza al vuoto che apparentemente si ostinava ad avere di fronte.
Quella sera, dopo che per l’intera giornata l’immagine del viso di Miss Lilith aveva regolarmente intersecato ogni mio singolo pensiero e occupazione rivelando al loro interno gli angoli nascosti di una gioia inusitata, simile in questo alla luce roteante di un faro issata in alto sugli scogli e sempre identica a se stessa sia di fronte alla tempesta che alla bonaccia, mi ero coricato in preda all’emozione quasi febbrile della speranza che nel sonno lei tornasse a farmi visita donandomi lo stesso piacere della notte precedente. E così infatti era accaduto. La scena del nostro nuovo incontro, però, non aveva nulla a che fare con quella del tutto realistica e quotidiana che l’aveva preceduta: perdendosi ancor più nel sogno, infatti, essa era diventata un fiabesco e autunnale viale disegnato da due filari paralleli di tigli possenti, privo tuttavia, nonostante le fatue certezze dell’apparenza, di una sua dimensione vera e propria, e quindi prima perduto in lunghezza, nell’infinito geometrico e invisibile di una linea retta, e poi smisuratamente evanescente anche ai lati, tra quegli alberi che avrebbero dovuto invece delimitarlo, a causa del galleggiante saliscendi di una foschia tutta confinata rasoterra; un viale elegante come ne avevo visti soltanto a Parigi, al Bois de Boulogne, quando mio padre, credo nel tentativo gentile di alleviare, ricorrendo a un’istintiva concitazione vitalistica, il nostro dolore comune per la morte della stessa donna, moglie per l’uno e madre per l’altro, mi aveva portato a vedere, come se fosse un monumento alla memoria, il luogo dove, in un’alba già carica d’estate, schiantandosi ubriaco contro un albero a bordo della sua Ferrari 250 GT Cabriolet, era morto il playboy Porfirio Rubirosa.
In sogno, Miss Lilith Langtry mi veniva incontro lungo quel viale, tutta circonfusa dai bagliori di una luce opalescente e autunnale, tra i sospiri infiniti di brevi mulinelli di vento e mucchi di foglie morte che qua e là cominciavano a danzare e poi smettevano, sempre e comunque all’improvviso; lei veniva verso di me anche se io non c’ero, perché non riuscivo a vedermi: ero come l’occhio della macchina da presa di un regista che gira e dirige il film ma che poi, di persona, nel suo film non c’è mai, nemmeno per un cameo alla Hitchcock. Quando infine era giunta al piano americano, una folata di vento aveva allargato i lembi del suo cappotto e io, dopo aver visto ancora la sua pelle candida, i seni rotondi e il triangolo nero lì al centro, tra i fianchi e in cima alle gambe, avevo avuto l’impressione, sospesa sul dormiveglia, di esplodere, per poi iniziare a galleggiare nella stanza, consapevolmente ridotto dal boato di quel piacere insostenibile a una nuvoletta rosata di pulviscolo danzante e di microscopiche meduse di carne umana.
Nonostante il forte sentore di festa, un impasto dolciastro distribuito in pari misura tra la superficie scintillante del sonno e i fondali limacciosi della coscienza che, addensandosi piano e sempre seguendo la direzione imprevedibile di minimi vortici sentimentali dalla morbidezza gentile, fluiva e rifluiva da me alla vita intera e viceversa come se, indifferentemente dalla loro natura specifica, le cose non fossero altro che il calco diretto o quanto meno il felice propagarsi per gemmazione, sempre a partire dal pensiero ostinato di Miss Lilith, di ciò che in quella quasi acerba pubertà ero abbastanza sicuro di poter chiamare innamoramento e addirittura amore, la mia già sicura attitudine per le prospettive ordinate e razionali mi aveva invece tutt’a un tratto incoraggiato a preoccuparmi con urgenza di un problema evidente e non da poco: visto che finora quella squisita e generosa concatenazione di esperienze straordinarie mi aveva travolto più o meno per puro caso, dovevo a ogni costo fare qualcosa per rendere più solida l’euforica ma fragile gioia che ne era poi scaturita con tanta, e davvero sorprendente, abbondanza (alla quale mi rendevo anche conto di essermi affezionato in modo insolito, considerata la mia attitudine naturale alla più assoluta svogliatezza!), garantendomi così quanto meno la possibilità di incontrare regolarmente, ogni mattina, colei che poi, nel sonno, mi si sarebbe sempre mostrata nuda per donarmi piacere. Neppure per un istante avevo pensato all’eventualità di fermarla nella vita reale, di parlarle, di tentare un qualsiasi approccio: ritenevo che a quel punto l’unica cosa necessaria per me fosse soltanto la possibilità di rivederla, ogni giorno, per poi godere ancora e ancora in segreto, nel cuore della notte, delle svelate fattezze del suo corpo.

(estratto dal primo volume)

©Andrea Rossetti

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