Nei mesi successivi era capitato qualcosa che aveva innescato per me e in me il corso di un’età nuova, radicalmente diversa da tutte le precedenti, dando origine a un’evoluzione così profonda dei miei desideri e nei contenuti delle mie giornate da indurli a compiere una vera e propria metamorfosi primaverile, tanto radicale nei modi quanto parallela nei tempi; e tra quelli, giorno dopo giorno, il disincanto era andato a imprimere, per aloni e chiaroscuri, l’intreccio prolifico dei suoi vellutati sottintesi, quasi stesse evocando la matrice neonata di una puntasecca ancora coperta alla perfezione da fragili trame di barbe metalliche ma anche prossima a una tiratura necessariamente limitata dall’incombere, simile a quello del trascorrere delle poche ore che la natura dona alla vita di certe farfalle, del suo precoce deterioramento.
Era inverno ma non faceva freddo, tant’è che tenevo il mio giaccone sportivo sbottonato e la sciarpa di morbida lana rossa aperta intorno al collo e adagiata fino alla vita, a destra e a sinistra, come la stola di un prete. La giornata era appena cominciata e dal suo multiforme fiorire mi trasmetteva un intreccio mobile e fitto di sensazioni, tutte spontaneamente romantiche, calma com’era sotto i buoni auspici di un cielo azzurrino attraversato da cirri sperduti che parevano altrettanti cigni dal piumaggio candido, screziato qua e là da arruffamenti cobalto e da lievi scie color rosa confetto; ma era anche il momento in cui noi scolari uscivamo di casa tutti insieme per ingaggiare la nostra corsa quotidiana contro il suono della campanella d’inizio delle lezioni, l’ora in cui io, per raggiungere la mia scuola, camminavo sempre sul ciglio di una strada secondaria, dalla parte in cui mancava il marciapiede perché mi piaceva guardare le lunghe crepe aperte nel selciato mentre il pensiero che il mondo si potesse sbriciolare da un momento all’altro sotto i miei piedi m’inseguiva e mi avvolgeva nella forma di un turbamento giocoso.
Quella volta, però, in cima al mio sguardo quasi del tutto orientato verso il basso, era apparsa lei, una sottile camminatrice in lento, ritmico avanzamento verso di me, indecisa al principio tra la sua pelle bianca e tutto quanto il resto, che invece era nero, lei che da allora in avanti sarebbe stata per me soltanto Miss Lilith Langtry. L’idea spontanea e immediata di attribuirle un nome fittizio nel quale, abbarbicati sull’eco di una prodigiosa assonanza come fossero una via ferrata e il fianco scosceso di una montagna, si combinavano alla perfezione quello della leggendaria prima sposa ribelle di Adamo, diventata dal diciannovesimo secolo in poi anche uno dei simboli della lotta per l’emancipazione femminile, insieme a quelli dell’enigmatica donna con lo specchio ritratta da Dante Gabriel Rossetti e della bellissima attrice – soprannominata il giglio di Jersey – che Oscar Wilde considerava la donna più bella d’Europa, ma pure quello della misteriosa Luna Nera, una volta ritenuta fisicamente credibile da astronomi famosi come il gesuita Riccioli e addirittura Giandomenico Cassini, anche se col tempo sempre più scaduta di credibilità scientifica, tanto da svaporare nelle fumisterie astrologiche del teosofo inglese Walter Gorn Old, noto col nom-de-plume di Sepharial e amico intimo dell’occultista Madame Blavatsky, fino a essere individuata, stavolta in ossequio alle leggi di Keplero, nella semplice, compiuta solitudine di un punto vuoto, il secondo fuoco dell’orbita lunare, ovverosia l’alter ego mancante della terra, mi era venuta in mente nel momento in cui i suoi capelli nerissimi stavano appena oltrepassando l’arco più a settentrione del confine del mio campo visivo e io, dopo avere sollevato il capo, istintivamente, come accade sempre di fronte a ogni sensata benedizione del caso, l’avevo da parte mia accresciuto, fino a comprendere il pallore profumato del suo viso che, irresistibile, come se fosse il senso intero della mia esistenza, mi incantava direttamente da qualche parte al centro del petto, là dove parevano scindersi e volatilizzarsi per davvero il bene e il male, il bello e il brutto, l’amore e l’odio, e a seguire i suoi occhi, che parevano due vortici lievi soffiati da un bambino nell’inchiostro troppo denso di altrettanti calamai, e quindi le sue labbra color rosso martirio, sulle quali ogni cosa al mondo, maturando finalmente soltanto nello spazio e sempre al di là del tempo, avrebbe voluto senza dubbio fermare il suo corso.
Durante quella benevola ouverture di tutto ciò che, solo in minima parte ma di sicuro spensieratamente, saremmo stati poi l’uno per l’altra, io e Miss Lilith Langtry ci eravamo appena sfiorati, passandoci accanto come due rette parallele ed euclidee, giusto al termine del moto lento ma generosamente deciso della mia testa verso l’alto, scandito, nel progressivo aprirsi di fronte a me di un orizzonte perpendicolare alla direzione dei miei passi, dal tempo esatto del suo venirmi incontro e simile in tutto all’assolo di danza di una fin troppo esile étoile o al ritmico, fisico stupore di un qualunque risveglio primaverile, che, oltre a ridestarmi dalla vacuità di consueti pensieri sempre in fuga tra lo spirito dei miei fumetti preferiti e l’essenza della fantasticheria, tanto assolutamente liberi quanto senza alcun dubbio inutili, aveva infine deposto, benché per un istante brevissimo, il mio sguardo nel suo e viceversa, lasciandomi comunque il tempo di cogliere sulle sue labbra, nell’increspatura vaga e consapevole di un sorriso, un cenno di accoglienza riservato unicamente a me che intanto le passavo accanto senza avere il coraggio di fermarmi: un cenno ammiccante e regale, simile al movimento della mano destra di un pianista quando riceve l’altra sotto di sé per intrecciare un grappolo di note prossime e indivisibili come l’eco ideale dei flutti del mare e il guscio cavo di una conchiglia. Miss Lilith, sorpassandomi, mi aveva lasciato in dote comunque da subito il suo profumo; e questo sembrava elevarsi direttamente dalla terra, quand’è baciata dai chiarori dell’alba nel momento in cui il cielo si copre finalmente di tutte le possibili sfumature dell’oro. Il suo odore di femmina era una scintilla, luminosa e aggraziata, una perfetta corrispondenza tra la fioritura di un roseto e la sensazione avvolgente del mattino.
Ci eravamo appena oltrepassati, attraversandoci l’un l’altra come avrebbero fatto le acque di due affluenti giunte infine a confondersi in quella del medesimo fiume; l’estremità della mia sciarpa rossa, sollevata dalla spirale avvolgente di un ricciolo d’aria messo in moto dal transito contrario e parallelo dei nostri corpi, e il bordo scuro del suo cappotto slacciato, fluttuante come l’ala di una taccola che sta per alzarsi in volo dal campanile di una cattedrale, si erano addirittura sfiorati; poi però ogni cosa era tornata a riposare nelle ordinarie certezze della solita quiete e io, in verità senza fare nemmeno troppa fatica, avevo frenato la mia voglia di girarmi a guardarla mentre si allontanava, per non sfilacciare col violento contrappeso di un’intenzione deliberata e del suo organizzato cascame di fantasie la fragile bellezza già compiuta e gratuita di un dono tanto mirabile del caso.
Per il resto del giorno non avevo fatto altro che pensare a lei, prima a scuola e poi a casa, anche a costo di alimentare – sempre però col cuore in festa – l’odiosa diceria che, come una specie di malocchio cantilenato senza soluzione di continuità da un nugolo di streghe desiderose solo di danneggiarmi, girava da un bel pezzo sul mio conto, guarda caso mettendo d’accordo insegnanti e familiari nell’affibbiarmi la nomea da manuale del ragazzino difficile, lunatico, solitario, caparbio, spigoloso e “sempre con la testa tra le nuvole”.
Quella sera, dopo essermi diligentemente dedicato per tutto il pomeriggio ai miei compiti di matematica e di storia (incredibile dictu!), che avevo concluso in perfetto orario così da poter scendere in sala da pranzo circa un quarto d’ora abbondante prima di mangiare, proprio come gli zii gradivano che io facessi in modo da riuscire a scambiare quattro chiacchiere e sondare, con una serie di domande anonime e di occhiate furtive da psicologi dilettanti, l’evoluzione, positiva o negativa, dello stato del mio umore di orfano (una tenera sollecitudine la loro, che tuttavia avevo imparato a ripagare mostrandomi infastidito oltre misura e perciò arrivando a tavola sempre in ritardo, con lo sguardo accigliato di chi non solo non ha alcuna voglia di fare conversazione ma che è anche rabbiosamente refrattario a qualsiasi tipo di rimprovero), avevo cenato con insolita compostezza, dispensando senza risparmiarmi sorrisi e affabilità a chiunque, cameriera pettegola compresa, al solo scopo di potermi ritirare in fretta in camera mia per pensare in santa pace alla mia nuova dea senza correre il rischio di incappare in lagnosi impedimenti di qualsiasi natura. Lasciavo con gioia che l’armonia interiore con la quale il mio brevissimo incontro mattutino con Miss Lilith Langtry mi aveva felicemente soggiogato – una strana, simbolica contaminazione tra la lentezza imposta dall’assenza di gravità agli astronauti che si muovono nello spazio e quella causata invece dal peso trasparente dell’acqua che grava sugli spostamenti di chi fa immersioni subacquee – dilagasse ovunque, rendendomi felice come non mi accadeva più da tanto tempo, in mancanza delle mie solite e illusorie esaltazioni. Pensavo solo a lei, danzavo con la sua immagine un infinito valzer ideale che, rarefacendosi a poco a poco come il canto per nulla materno e molto stravagante di una ninna nanna troppo romantica, mi aveva infine accompagnato nel grembo di un sonno dolce e potente, tra gli ultimi, stanchi sedimenti delle luci di un mondo che davvero non era mai stato per me così esterno. Nel corso della notte lei era tornata a me, in un sogno inevitabile, e avevamo di nuovo incrociato le nostre strade sulla stessa via, con la medesima inclinazione, io in salita, lei in discesa, ma stavolta il suo cappotto, aprendosi tra le scosse del moto e il soffio del vento, mi aveva rivelato il suo corpo nudo, la sua pelle liscia e quasi diafana, la forma arcuata dei suoi seni, i suoi fianchi docili e cinti da un reggicalze color perla e poi ancora l’angolo acuto e nero tra le sue gambe, sospeso tra le cosce delicate sopra il bordo sottile di calze quasi trasparenti che scivolavano con grazia assoluta dentro le scarpe decolleté, per metà grigie e per metà bordeaux. Nel sonno, la mia erezione era diventata a quel punto quasi dolorosa e il sopraggiungere liberatorio del piacere mi aveva destato per alcuni istanti, come se da qualche parte, senza darsi pace, un violinista stesse suonando, per me e per Miss Lilith Langtry, il trillo del diavolo di Tartini.
(estratto dal primo volume)
©Andrea Rossetti