Solo parecchio tempo dopo mi ero reso conto che ciò che stava facendo il vecchio fioraio svizzero era una sperimentazione finalizzata alla scelta delle sementi più adatte al suo scopo (che, come ho già detto, in quel momento era altrettanto ignoto alle mie riflessioni di spettatore curioso): nel contempo, infatti, cercava di attrezzarsi nel migliore dei modi per l’irrigazione e aveva anche acquistato un tosaerba a lama elicoidale, di quelli che permettono di ottenere un’altezza di taglio del tutto conforme alle proprie aspettative.
Non potevano esserci dubbi sul fatto che l’esigenza di poter contare sulla disponibilità di grossi quantitativi d’acqua assorbisse i suoi pensieri in modo palesemente meno tranquillo del solito, tenendolo un po’ sulle spine e convertendone i gesti, altrimenti sempre lineari e leggeri, in quelli estenuati di un uomo di fatica. Egli, infatti, mentre era in paziente attesa di avere dei responsi dalle sue piccole miniature di prato che, come tante reminiscenze di paesaggi campestri settecenteschi educati dagli uomini secondo l’ispirazione di uno spirito pittoresco, si andavano lentamente rivestendo di brevi mantelli soffici d’erba verde, ognuno più o meno diverso dall’altro per consistenza e tonalità di colore, aveva iniziato presto a dedicare gran parte delle sue energie e del suo tempo a predisporre un efficace sistema d’irrigazione. Partiva innanzitutto dalla buona sorte di avere a disposizione un vecchio pozzo, uno dei tanti ruderi situati nelle immediate adiacenze della sua bottega, del resto accomunata a ciascuno di essi dall’insolito destino di rovina e di riabilitazione toccatole in sorte, che non si prosciugava mai, neppure durante le estati più calde, perché chi a suo tempo l’aveva fabbricato sapeva evidentemente molto bene il fatto suo. I colpi di fortuna del fioraio, però, finivano lì, perché il pozzo non aveva una portata tale da consentirgli di utilizzarlo allo scopo di innaffiare con regolarità, direttamente e per un congruo periodo di tempo, l’intera superficie che aveva predisposto con tanta cura. Il signor Koch si era quindi determinato a scavare una fossa di transito, in grado di contenere un buon numero di metri cubi d’acqua e rifornita da una pompa sommersa posta dentro al pozzo, nella quale aveva poi immerso una seconda pompa destinata invece alla vera e propria alimentazione dell’idrante.
Era ormai chiaro che il suo progetto fosse o avesse comunque a che fare con la creazione di un grande prato nel luogo in cui una volta era sorto il “CineMoon”. Il sistema che aveva ideato e messo in opera, infatti, gli consentiva di avere a sua disposizione in qualsiasi momento tutta l’acqua necessaria al mantenimento di un manto erboso di quelle proporzioni, dato che fare ricorso all’acqua potabile sarebbe stato troppo costoso oltre che vietato almeno in certi periodi dell’anno.
Anni dopo, uno dei rari giardinieri loquaci dell’All England Lawn Tennis and Croquet Club di Wimbledon avrebbe condiviso con me un intero pomeriggio, scandito dal numero indefinito delle sue instancabili peregrinazioni quotidiane per le varie zone del circolo tra grossi servizi da portare a termine e piccoli difetti ai quali rimediare, pur di riuscire a raccontarmi di filato, appoggiando le parole a una voce profonda e sempre stranamente battente su ogni ultima sillaba, come se col trascorrere tempo si fosse immedesimata nel suono che fa la pioggia quando cade fitta – sottile o scrosciante – sopra i teloni di plastica che si stendono sui campi affinché l’eccesso d’acqua non li danneggi, e adatta a compiacere la confidenza ma anche a farsi carico della poetica solennità di un insegnamento, la complicata epopea di un campo da tennis in erba, guardata non dal più consueto punto di vista del tennista o del giornalista sportivo ma da quello, inusuale e poco considerato, di un addetto alla manutenzione, a partire dalla necessità di un accurato e snervante controllo delle piante infestanti, che nei primi tempi devono essere addirittura eliminate a mano, fino alle diverse modalità di annaffiatura e all’apologia della perfezione che ottiene solo chi ogni anno si sottopone alla fatica di rinnovare completamente il manto erboso. Ricordo che mentre mi parlava i suoi occhi luccicavano di sguardi perduti molto simili – sebbene più in orizzontale che in verticale – a quelli di certi santi cattolici dipinti in estasi dai pittori manieristi e barocchi, rovesciati e stravolti dalla chiarezza alienante della visione dell’invisibile, in modo da spiegare la palpitante varietà di guizzi tonali nella sua voce, che in teoria sarebbero stati fuori luogo in un racconto imperniato soltanto su argomenti ordinari (“…io le dico, e sono pronto a farci sopra qualunque scommessa, che organizzare il torneo d’estate non è proprio una grande idea perché il periodo migliore per giocare sull’erba è invece quello che va da marzo a metà giugno, quando il manto raggiunge il suo aspetto migliore e le infestanti annuali non sono ancora comparse a darci il tormento, mentre, con l’arrivo del caldo, l’aspetto dei campi si deteriora molto, anche se non si può dire che il fondo non rimanga comunque accettabile; poi in autunno l’erba torna abbastanza bella e il campo si può utilizzare fino a fine ottobre, naturalmente se la pioggia e l’umidità lo permettono, perché – vede – i veri guai, a noi giardinieri, li portano il gelo che brucia il prato o la pioggia eccessiva che li trasforma in pantani, allora sì che sono dolori; ma sa piuttosto quali sono i giorni in cui preferisco lavorare? non lo indovinerà mai: sono quelli in cui un campo è inagibile per la manutenzione, quando finalmente me ne posso stare per conto mio, al riparo dal solito viavai dei soci, a concimare, a eliminare le infestanti a foglia larga o a spargere l’antigerminello, nel perimetro, almeno per una volta silenzioso, di quello che, tra tutti questi strani rettangoli campati in aria, disegnati soltanto per il gioco e per chi ha la fortuna di averne voglia e che a prescindere da ogni altra considerazione devono comunque solo a me tutta la loro perfezione, è in quel momento il più bisognoso di cure…”), quali altrettanti indizi della presenza occulta di un vero punto di vista sentimentale, di un innamoramento quasi fanciullesco per quei campi, talmente inafferrabile da doversi adattare per forza anche alle opache rifrazioni di una chiacchierata.
Una sera, in prossimità dell’ultima luce naturale, quella che si appoggia sui tetti e le terrazze come se fossero una dorsale montuosa, disegnandone i contorni con una fluorescenza blu cobalto bordata da vapori scarlatti, il fioraio Koch aveva cancellato, in fretta e con dei gesti abbreviati in cenni dalla pienezza di una decisione definitivamente raggiunta, ogni traccia dei rettangoli d’erba, fermandosi però all’improvviso, giusto alla fine e dando quasi l’impressione di voler evocare la delicatezza di un atto di clemenza, per lasciarne intatto solo uno: l’ultimo a sinistra, che anche visto da lontano pareva avere un aspetto migliore, più compatto, rispetto agli altri.
Spinto da un irrefrenabile moto di curiosità, avevo atteso che il buio raggiungesse una densità sufficiente a nascondermi da sguardi ben più indiscreti e sospettosi del mio, e mi ero quindi intrufolato, pressoché pancia a terra, in quello spazio aperto che l’ansia dell’effrazione mi mostrava dilatato a dismisura. Una volta raggiunto l’unico rettangolo verde sopravvissuto alla drastica rimozione compiuta dal fioraio, avevo finalmente scoperto che il nome di quella varietà di prato, scritto in italiano sul bastoncino di legno, era AGROSTIDE PALUSTRE. E così, disteso sulla terra polverosa ma col profumo dell’erba bagnata che via via si faceva sempre più intenso nelle mie narici, ero stato sorpreso e paralizzato dalla discesa di una nebbia fittissima che, spingendo i miei pensieri a oltrepassare rapidamente l’iniziale suggestione pagana di un nome – agrostide – le cui sillabe vibravano tra loro come armoniche effuse da un antico cembalo di bronzo, aveva tutt’a un tratto ravvivato in me, combinandosi all’aggettivo palustre per tratteggiare l’immagine sensuale di una natura misteriosa e potente, il ricordo della voce accurata di mio padre, che quand’ero ancora bambino, sapendo di fare cosa gradita alla mia fantasia ipersensibile, si sedeva accanto a me mezz’ora prima di cena e, adattandosi a rendermi un surrogato di gentilezza materna, leggeva per me, non senza scrutare di tanto in tanto le mie reazioni, qualche pagina dei poemi di Ossian.
(estratto dal primo volume)
©Andrea Rossetti