Dopo essersi aperto con le cesoie un piccolo varco nella rete, che aveva poi nascosto accuratamente dietro alcuni vasi ammassati con studiata sciatteria sul retro della sua bottega, il signor Koch, mentre dava a me – che passavo ore a guardarlo in silenzio da dietro la recinzione, dal lato che si affacciava sulla strada, e che, pur non cercando in alcun modo di nascondermi alla sua vista, avvertivo tuttavia netto il disagio indefinibile di chi si considera un ibrido tra una spia e un ficcanaso – l’impressione di possedere un’incredibile predisposizione per le abilità quasi certosine proprie di un agrimensore, aveva quindi cominciato a eseguire delle stravaganti misurazioni utilizzando strumenti molto semplici come un metro di legno da sartoria, due squadre di metallo, una scalena e l’altra isoscele, e qualche gessetto nero.
Conclusa questa prima fase, che, seguendo col pensiero le immagini evidentemente molto docili e ben equilibrate scaturite dalla sua idea di partenza, egli aveva rifinita per intero da un punto di vista soprattutto meditativo, riducendo l’azione vera e propria a dei minimi spostamenti lineari e a una sobria gestualità fatta di brevi segmenti di moto sempre interrotti a metà dall’impercettibile richiamo all’ordine della loro natura potenziale, tanto i primi quanto la seconda diluiti nel tempo – grazie a me che assolvevo la funzione di spettatore – con la stessa, pastosa tranquillità che s’incontra nei difetti incantevoli delle immagini sgranate e della visione a scatti di quei vecchi filmini amatoriali, girati in famiglia su una pellicola muta 8 millimetri all’epoca in cui la gente pensava per davvero di essere condannata alla contentezza, Clemente Koch era passato alla successiva, armonizzando perfettamente la continuità grazie a un unico sguardo isolato che tutt’a un tratto mi aveva rivolto, senza concedermi la benché minima sensazione di un preavviso, eseguendolo, come uno dei passi ieratici delle coreografie di Lindsay Kemp, a partire da una mezza torsione del collo che, portando il mento parallelo alla spalla, era stata poi completata dal movimento luminoso e prospettico degli occhi lungo la medesima direzione, affinché io non pensassi – nemmeno per un istante – che a guardarmi fosse stato per davvero un uomo anziché l’ago magnetizzato di una bussola.
Senza fare ricorso all’ausilio di mezzi meccanici, per esempio a un piccolo dozer che gli avrebbe potuto agevolare parecchio un lavoro altrimenti durissimo ma che, in primo luogo, egli non sarebbe stato in grado di far penetrare attraverso la recinzione senza danneggiarla in modo troppo vistoso e, in seguito, anche di utilizzare evitando di dare nell’occhio e di attrarre la curiosità molesta dei passanti, l’anziano fioraio, che in ogni suo gesto mostrava invece il desiderio o perlomeno la cauta aspirazione di conservare per quella sua impresa solitaria – ai miei occhi incerti di testimone silenzioso ancora del tutto imperscrutabile – la soavità di uno stato complessivo di appartata lentezza quasi spirituale, come quella che agli albori del monachesimo europeo doveva aver caratterizzato l’opera orante di bonifica e di dissodamento delle terre da parte dei primi benedettini e qualche secolo più tardi dei cistercensi, aveva cominciato a stendere terra mista a limo di fiume (in seguito avrei imparato che questo è necessario per ottenere un buon drenaggio), provvedendo poi a spianarla a occhio con incredibile destrezza e precisione. Molto simile a una di quelle figure di contadini, essenziali e stilizzate nel tratto ma anche vibranti di uno sperduto dinamismo nei rilievi cromatici – alla maniera delle incisioni a sbalzo – per contrastare i fondali estesi a misura di lontananza dalla profondità velata dei bianchi, dalle ombreggiature dei verdi e dall’altalenante intensificarsi e digradare del celeste fino al turchino e viceversa, mediante l’assemblaggio calcolato di campi ben definiti di colore, e ritratte durante il duro lavoro nei campi da Gerard Horenbout e da Sander e Simon Bening nelle bellissime miniature di scuola fiamminga che incantano di commozione chiunque abbia la rara fortuna di poter sfogliare il manoscritto originale del breviario cinquecentesco appartenuto al cardinale Domenico Grimani e custodito alla biblioteca Marciana di Venezia, anche Clemente Koch, pur proiettato nello spazio laico e tridimensionale del movimento, pareva affatto estraneo a ogni manifestazione d’ansia o di fretta. Procedeva attraverso la flemmatica perfezione dei suoi gesti sottili e appena scolpiti nell’aria, cinto dalla tranquilla compostezza del moto perpetuo e circolare del tempo necessario delle stagioni, discordante, come una mulattiera sopra uno strapiombo, rispetto a quello vettoriale programmato invece dai doveri e dalla volontà, che intanto continuava a scandire ogni cosa nei paraggi e ben oltre.
A un certo punto, il fioraio aveva interrotto il grosso del suo lavoro – scandito da movimenti ben espliciti – sopra l’intera superficie dell’area per rannicchiarsi e riservare tutte le sue cure a un angolo soltanto, nello specifico quello sul quale il sole batteva più a lungo e in modo abbastanza omogeneo nel corso della giornata. Là aveva creato una serie di rettangoli, coltivati con diversi tipi di erba da prato e separati da una porzione di terra sufficiente a consentirgli di passare e di spostarsi agevolmente, ciascuno grande come qualche piastrella da pavimento e identificato con un nome scritto su un bastoncino di legno.
Dal cambiamento comparso nel suo modo di muoversi avevo intuito che era cominciata una fase di studio, organizzata per l’appunto entro i confini di quel riconoscibile raccoglimento e rivolta alla ricerca di un oggetto ben preciso. Un uomo che opera secondo un piano di lavoro già perfettamente prestabilito, infatti, assume col corpo una postura molto diversa da quella che aveva presa allora il signor Koch, assimilabile invece all’atteggiamento fisico dello scienziato, che è viceversa profondo e raccolto come una spirale, una postura che si sviluppa in ampiezza, similmente a qualcosa di interamente dispiegato, preciso e sicuro alla maniera di una vela o di una bandiera.
(estratto dal primo volume)
©Andrea Rossetti