In quanto curioso di ogni vicenda legata in qualche modo alla storia del primo impero francese (a causa di una sorta di snobismo infantile, nutrito di venerazione per la massima eroicità possibile, non riuscivo infatti a considerare Napoleone III un vero imperatore), avevo scoperto che l’eruzione vulcanica più distruttiva e potente dal termine dell’ultima era glaciale si era verificata nell’aprile del 1815, allorché il vulcano Tambora, che si trova sull’isola indonesiana di Sumbawa, aveva eruttato più di centocinquanta miliardi di metri cubi di roccia, scaraventando nell’atmosfera una massa smisurata di cenere e polveri.
La catastrofe aveva ucciso nell’immediato più di dodicimila persone e non meno di ottantamila erano poi morte nei mesi successivi a causa dei mutamenti climatici dovuti al disastro. La fitta polvere messa in circolazione dal vulcano, infatti, era rimasta sospesa nell’atmosfera per mesi e mesi, impedendo al sole di riscaldare adeguatamente la superficie terrestre e determinando gravi conseguenze anche su scala planetaria, al punto che negli anni successivi gli inverni erano stati particolarmente freddi e le estati del tutto assenti. Questa specie d’interminabile inverno, protrattosi per quasi tre anni (il 1815 e il 1816 sarebbero stati ricordati infatti come gli ‘anni senza estate’ o anche gli ‘anni della miseria’), aveva provocato una drastica riduzione della produzione agricola e l’impoverimento progressivo di regioni sempre più vaste del pianeta.
Due mesi più tardi, a più di diecimila chilometri di distanza, nel territorio del villaggio di Mont-Saint-Jean, situato a sud della cittadina belga di Waterloo (in seguito mi è capitato spesso di supporre che, a causa della mia appartenenza alla medesima nazionalità del Duca di Wellington, la profonda antipatia che nutrivo allora per i belgi fosse dovuta senz’altro alla collocazione geografica di quel luogo, quasi si trattasse di una sorta di transfert del senso di colpa che, in quanto inglese, provavo al cospetto della mia incondizionata ammirazione per l’Empereur), Napoleone Bonaparte, proprio perché ignaro delle reali e vastissime conseguenze di quella terrificante eruzione, era stato indotto a compiere alcuni errori fatali nella preparazione dei piani di quella che sarebbe stata la sua ultima battaglia. Infatti, a causa della cenere vulcanica che offuscava perennemente la luce del sole come pure del freddo polare e delle piogge che, a dispetto dell’approssimarsi dell’estate, erano molto più frequenti del normale, il suolo aveva trattenuto umidità a dismisura vanificando così tutta la strategia dell’imperatore. L’artiglieria, da sempre arma prediletta e asso nella manica di Napoleone, era rimasta di fatto inutilizzabile fino a mezzogiorno, perché si doveva evitare che i pezzi affondassero nel terreno inzuppato dall’acqua; e anche in seguito era stato impossibile far rimbalzare a terra i tiri dei cannoni, così come prescritto da una classica tattica che, da sempre micidiale, avrebbe senz’altro falcidiato la fanteria nemica. Così la potente cavalleria francese, priva di una copertura adeguata da parte dell’artiglieria e logorata lentamente dalle raffiche precise e inesorabili dei fucilieri inglesi, era stata costretta a compiere un’interminabile serie di cariche, permettendo a Wellington, potenzialmente sconfitto, di protrarre lo scontro per il tempo necessario a permettere l’arrivo sul campo di battaglia dell’esercito prussiano.
Non molto diversamente, per una di quelle cause che, proprio come l’eruzione del vulcano Tambora, anche nella storia più importante, quella degli eventi notevoli considerati degni delle pagine dei libri, sono a tal punto decisive da rimanere completamente occulte, sommerse dal ribollire in superficie degli effetti che esse producono e poi manovrano dalla profondità, dando così agli storici l’occasione di cimentarsi in esegesi spavalde e teorie presuntuose che finiscono per far coincidere la realtà di fatto coi molteplici racconti della sua ricostruzione, il signor Clemente, il fioraio svizzero, aveva cominciato a gironzolare con assorta insistenza intorno a quella spianata silenziosa, che era diventata la mappa, l’astrazione spoglia e lineare dei significati che nel corso degli anni avevano abitato il vecchio cinema ormai scomparso, tutti in qualche modo riconducibili allo spirito ludico e un po’ naïf di tempi primitivi in cui per gli abitanti del quartiere lo svago era un’avventura semplice e una persistente scoperta a buon mercato.
Sebbene un’alta rete metallica a losanghe sostenuta da robusti pali cilindrici in lamiera d’acciaio zincata fosse stata posta subito tutt’intorno all’area ormai bonificata, la quale, pur rimanendo a tutti gli effetti una proprietà privata e appartenendo perciò formalmente a dei legittimi proprietari, era in sostanza inutilizzabile per scopi di edilizia diversi dalla realizzazione di un nuovo cinema (che nessuno, però, aveva la benché minima intenzione di costruire), era stato immediatamente chiaro a tutti, e in particolare proprio al vecchio fioraio, che tale recinzione non avesse reali velleità intimidatorie nei confronti di eventuali intrusi ma rispondesse soltanto all’adempimento di un obbligo di legge a tutela della responsabilità civile dei proprietari.
(estratto dal primo volume)
©Andrea Rossetti