L’UOMO DISINCANTATO – “La Luna” (6)

Appena una settimana dopo il crollo, accompagnata dal tipico ammanto di morigerata ampollosità che contraddistingue sempre ogni dimostrazione pratica dell’efficienza britannica, un’interminabile processione di camion e di ruspe, che parevano regolare i propri movimenti secondo le figure meccaniche di una danza essenziale, aveva prima raccolto con cura tutti i detriti dentro dei grossi sacchi di plastica molto robusta per poi disporli a destra e a sinistra, lungo i lati più lunghi dell’antico perimetro del parallelepipedo rettangolo, in due terrapieni, come si fa per rinforzare gli argini dei fiumi durante una piena alluvionale; a quel punto, seguendo un ordine inverso lungo ciascun terrapieno, sia per non intralciarsi che per limitare a un solo momento, quello dell’incrocio centrale, il massimo del fastidio dovuto alla mescola acre delle polveri durante il sollevamento, gli operai, le cui voci penetravano come una grassa marezzatura nel tessuto tutto muscolare del frastuono, avevano cominciato a disporre i sacchi sugli autocarri che, una volta colmi, erano quindi scivolati via, uno dopo l’altro, diretti altrove, verso un luogo a noi sconosciuto e senz’altro lontanissimo dal nostro quartiere, portando ognuno in dote a quella misteriosa destinazione la sua parte, identica per peso e dimensioni a tutte quante le altre, di frammenti del grande crollo, tornati nella confusione della raccolta e del trasporto a essere, privi ormai di attitudini plausibili, sia marini che celesti.
A quel punto del “CineMoon” non rimaneva altro che il disegno in piano: un grande rettangolo perlaceo con screziature azzurrine che a volte si spostavano in base alla direzione e alla forza del vento, e variavano d’intensità a seconda della diffusione e delle caratteristiche della luce. Il perimetro era leggermente sopraelevato, come per la presenza di una cornice aggettante che induceva l’illusione ottica di una vasca poco profonda, pavimentata con piastrelle lucide, in gres porcellanato, una specie di scacchiera rivestita di madreperla e acquamarina, in cui qualcuno avesse inspiegabilmente riversato della paraffina, dopo averla sminuzzata e sciolta a fuoco lento per poterla così levigare piano appena fredda con una sottile lametta affilata, adagiandovisi sopra con la stessa misurata levità della minuscola sagoma di un personaggio appena tratteggiato da un artista al solo scopo di rendere abitato il disegno, altrimenti troppo vasto, di un paesaggio, tremando anche per la paura che un gesto appena più brusco potesse creparne la glaciale limpidezza trasformandola in un coagulo di opacità oleosa, fino a ottenere con sollievo la sensazione fedele dell’acqua, tra superficie e abisso, appena trasparente sul suo fondale reticolato di scintille preziose.
Il mare era diventato infine una piscina, ma non una qualunque, una piscina termale, sul tipo di quelle che avrei visto molti anni più tardi a Moulay Yacoub, in Marocco, là dove gli alisei si avvolgono strizzati intorno a piccole isole vermiglie. In quelle piscine l’acqua è calda e vaporosa e chi vi si immerge finisce inevitabilmente per desiderare di sparirci, quasi liquefacendosi, perché non trova più alcuna differenza tra respirare e mettersi a cantare con le sirene.

(estratto dal primo volume)

©Andrea Rossetti

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