Nonostante da quell’epoca fossero passati già diversi anni, in giro per il quartiere c’era ancora tanta gente che custodiva con nostalgia il ricordo delle lunghe serate trascorse al “CineMoon” o anche soltanto nei suoi paraggi, senza che vi fosse neppure il bisogno di entrare per assistere alla proiezione di un film dato che a molti per essere felici bastava semplicemente rimanere lì intorno, nell’orbita del clima favoloso che la sola esistenza di quell’edificio già creava alla perfezione fungendo da polo d’attrazione.
Uno dei miei vicini di casa, per esempio, un tipo per la verità piuttosto svagato a causa di tutto l’alcol che aveva sempre in corpo, mi fermava di tanto in tanto per la strada con la voglia incontenibile di fare due chiacchiere e, senza smettere mai di indicare col dito il vecchio cinema per tutto il tempo in cui mi parlava, mentre se la rideva chiassosamente e scrollava le spalle in un’oscillazione sgraziata come se fosse in balia di una qualche specie di attacco epilettico (cosa questa che mi infastidiva moltissimo, perché fin da bambino nutrivo un istintivo disgusto per ogni genere di disarmonia immotivata), mi raccontava di quando molti anni prima arrivava puntuale ogni giorno l’ora in cui i suoi figli ancora piccoli cominciavano a schiamazzare e a fare di tutto pur di poter assistere al momento cruciale dell’accensione dell’insegna, allorché la grande falce di luna cominciava a lampeggiare, poi a brillare e infine a risplendere, insieme alla sua inconfondibile stella, sopra la testa di ogni abitante del quartiere, che in fin dei conti era poi anche l’unico istante a modo suo magico della giornata, quello in cui, grazie all’umile generosità di un semplice disegno tracciato a ridosso dell’imbrunire da una sequenza di comuni lampadine, il mondo dei sogni poteva scendere generosamente una volta di più sulla terra portandole in dono una redenzione incruenta, priva di pretese morali e fondata soltanto sulla purezza docile della fantasia, libera di diffondersi ovunque come un chiarore assorbente che accorciava fino ad annullarla la distanza tra ogni singola vita e la sua propria quiete.
A dispetto di tutto ciò all’inizio del 1960, quando le attività imprenditoriali dei soci, che nel frattempo avevano prosperato sviluppandosi grazie alle importazioni di tappeti e di tessuti di lusso, si erano definitivamente rivolte altrove con l’acquisizione di una nota catena di profumerie, gli abitanti del quartiere avevano ricevuto come un fulmine a ciel sereno la notizia che la proprietà aveva deliberato la chiusura a tempo indeterminato del “CineMoon” in attesa di poterlo cedere a eventuali acquirenti. Da allora per quel luogo, in cui innumerevoli volte l’astratto splendore di un sogno, a prescindere dalla sua origine, si era incastrato nelle crepe di esistenze vivacchiate e continuamente pericolanti saldandone i lembi aperti con la pura ebbrezza di un momento di gloria, era cominciata una lunga e triste parabola di degrado e di abbandono, nonostante i ricordi dei tanti che l’avevano frequentato per certi versi lo mantenessero in vita, addensandosi in una specie di coagulo sentimentale fatto di abitudine e di rievocazione, con quel tanto di fanciullesco spirito quaresimale che da sempre compie la metamorfosi di un carnevale in un rito religioso e quella di un desiderio in una preghiera. Nel quartiere, infatti, non c’era sguardo né punta di mento o di naso che anche solo per un istante non si rivolgesse al cielo in cerca di una benevola divinazione quando, calante la sera, gli stormi degli uccelli londinesi parevano ricongiungersi tutti insieme, disegnando allusivi guizzi premonitori in un punto qualsiasi e tuttavia ben preciso perché posto comunque tra gli orli sgretolati del grande parallelepipedo rettangolo che un tempo era stato un cinema e il resto dell’infinito. Allora la luce del sole, schiacciata dal tramonto sulla linea dell’orizzonte, sprigionava come un frutto maturo il suo denso succo color melograno che, costringendo le palpebre di quegli à uguri improvvisati ad abbassarsi quasi del tutto, trasformava finalmente il breve ritaglio di mondo rimasto visibile tra le ciglia in un ambiente familiare, una stanza interiore illuminata attraverso sottili tende rosa arancio e capace di conservare anche nell’aria liquida o gelata delle stagioni più rigide un’infatuazione primaverile quasi botticelliana.
Grazie alla tacita ispirazione di un sentimento collettivo il “CineMoon” si era spontaneamente trasformato agli occhi di tutti in ciò che l’istinto suggeriva essere più vicino non tanto all’uso primitivo, dato ormai per perduto, quanto alle conseguenze emotive che la sua esistenza aveva suscitato fin dall’inizio negli abitanti del quartiere: un altare antico, una sorta di intoccabile rovina sacra, testimonianza morale dell’esistenza in vita di ciascuno e del suo quotidiano incontrarsi e riconoscersi in quella, curiosamente modernissima, di una collettività . Per questo motivo, quando il vecchio cinema era stato occupato abusivamente da un gruppo di giovani musicisti, sciamati alla rinfusa da vari sobborghi di Londra sino al cuore del nostro quartiere, i quali, subito dopo essersi barricati come un’orda di barbari invasori all’interno di un tempio appena profanato, avevano anche manifestato l’intenzione sfacciata di prenderne possesso contro la volontà dei legittimi proprietari per farne la loro sala prove e il loro studio di registrazione, la gente del rione era quasi insorta, costringendo gli intrusi a sloggiare in gran fretta, scortati dalla polizia, di fronte alla concreta minaccia di un linciaggio.
A causa del trascorrere inesorabile del tempo, però, era accaduto che qualcuno iniziasse a parlare con insistenza del pericolo di crolli (e proprio una simile circostanza, come avrò modo di raccontare, avrebbe impresso di lì a poco una svolta decisiva alla mia vita) insinuando tra i pensieri delle persone sentimenti striscianti plasmati dall’inquietudine e dal sospetto che in breve avevano dato origine a una singolare pratica collettiva: quella di guardare il vecchio cinema abbandonato da una distanza di sicurezza rassicurante, cercando di ritrovare la stessa devozione benevola di una volta senza dover correre per forza dei rischi inutili. Questa novità , colma com’era di buon senso e di considerazioni ragionevoli, aveva cancellato ogni schietta traccia d’infanzia dal rapporto tra il “CineMoon” e gli abitanti del suo quartiere, trasfigurando di fatto quanto c’è di tradizionale in un’abitudine nella fatua volubilità che caratterizza invece una moda.
Davanti a quella costruzione, il cui indelebile incanto era custodito per intero da un’epoca alla quale nessuno dei loro ricordi poteva appartenere, i bambini più piccoli ma soprattutto i nuovi residenti abbandonavano senza imbarazzo ogni tipo di spazzatura e addirittura cumuli di sacchetti di rifiuti e se si scrutava l’interno da dietro quel che ancora esisteva dei cancelli si poteva intravedere una triste teoria d’indumenti logori, sparsi qua e là come in una discarica. Eppure, nonostante le serrande imbrattate, l’intonaco staccato e le finestre murate, il “CineMoon” conservava integra almeno la sua gloriosa insegna che, sia pure deteriorata e ridotta ormai allo scheletro buio di se stessa, resisteva all’incuria e a modo suo ancora troneggiava, rassicurazione sapiente e benevola profezia del genius loci.
L’alterazione radicale intervenuta nel vincolo che sussisteva tra l’edificio e la popolazione del quartiere ne aveva rivelato, neppure tanto inattesa, la tacita fragilità , che è poi la stessa che rende sempre più faticosa la tenacia dei desideri quando la prospettiva di una loro concreta realizzazione tarda oltre misura a produrre perlomeno i primi cenni visibili di un abbozzo.
Osservando così a lungo e tanto meticolosamente il quotidiano dipanarsi di quella vicenda rionale, che chiunque, dotato di una natura meno solitaria, taciturna e sentimentale della mia, avrebbe a quel punto considerato trascurabile se non addirittura irrilevante, attraverso le maglie lente di una distrazione che ormai mi rendeva faticoso mettere a fuoco i pensieri anziché lasciare che si combinassero senza impedimenti, in un morbido stato di quiete sospesa, secondo una coerenza logica fatta più di libere ispirazioni che di rigori metodologici, senza mai concentrarmi troppo su un solo oggetto preciso ma accostandoli tutti con l’amore imparziale di un collezionista, ero infine incappato in una delle primissime intuizioni trapelate direttamente dal centro abissale e magmatico del disincanto, una di quelle che avrei imparato a riconoscere poi dalla sensazione indecifrabile e caratteristica che le avrebbe sempre accompagnate, somigliante all’ascolto di un suono che tace il proprio rumore, alla musica astratta che fa una sciarpa di seta quando un refolo di vento improvviso l’adagia con sé su un’aiuola fiorita. Col tempo avrei scoperto che, nella sua complicata ambiguità , il disincanto non ha un vero e proprio centro ma, ispirandosi allo schema animato di una rosa disegnata mediante la sovrapposizione di cerchi di diametro differente e in perenne movimento, ne conta molteplici e diversi; di modo che un uomo disincantato, nel corso della sua vita, finisce per trovarsi di fronte a un numero davvero imprevedibile di luoghi interiori, inusitati e mai definitivi, che in qualche modo ricordano i piccoli cassetti scolpiti da Salvador Dalì lungo il corpo della sua variante della Venere di Milo. Allora, però, non ero che un ragazzino inesperto sia della mia natura che delle complicate sottigliezze dell’esistenza e appunto per questo mi ero lasciato assorbire con semplice, puntigliosa generosità da una compassione smisurata per quel fatto all’apparenza marginale – l’invisibile ferocia del cambiamento in atto nella relazione tra il vecchio e pericolante “CineMoon” e la quotidianità della gente che doveva comunque continuare a vivergli intorno – giungendo – non senza impressionarmi per la brusca sensazione di vuoto che avevo percepito, una specie di contraccolpo, come se mi fossi trovato in un ascensore che si blocchi in corsa all’improvviso – al disincantato smascheramento del falso legame, tanto impulsivo quanto privo di senso, tra il desiderio e quelli che vengono considerati per un abitudinario e rassicurante conformismo i suoi due esiti naturali, ovvero il sogno e la realtà . In quale dolore e in quanto smarrimento adolescenziale ero precipitato – sul ciglio solitario di una sera che ricordo davvero mia solo perché affilata e sibilante come il guizzo di una spessa corda di basso allorché, più tagliente della lama di un rasoio, si spezza all’improvviso, ferendo da orecchio a orecchio il collo del musicista che con cieca violenza si stava ostinando a farla vibrare oltremisura sui ghiotti pickup del suo strumento durante un concerto rock – nel momento esatto in cui avevo prima appena percepito e poi dovuto riconoscere nel sogno un desiderio adulterato e nella realtà – a quei tempi ancora mio malgrado – un desiderio frainteso! Sì, perché si è soliti credere che un desiderio non sia che un bivio di fronte al quale c’è chi decide di andare dalla parte del sogno, perché ne ama l’assoluta purezza, e chi invece di incamminarsi verso un progetto, accettando l’imperfezione del compromesso pur di ottenerne la realizzazione. In verità , l’uomo generico usa il desiderio per dividere l’umanità in attivi e contemplativi e capire dipoi quale dei due schieramenti preferire; ma un uomo disincantato – iniziavo allora ad averne cognizione – ai desideri non chiede un bel niente, li vive semplicemente perché ci sono, perché se li ritrova tra i neuroni e le sinapsi, lasciandoli indifferentemente liberi di accadere o di fallire nella cornice di un gioco, che non è un sogno e neppure un progetto, che si accontenta di essere impreciso com’è, momentaneo e divertente. Gli uomini disincantati non sono né attivi né contemplativi, sono degli alieni (e forse anche per questo a Wimbledon, nel glorioso anno del torneo del centenario e del giubileo della regina che mi avrebbe reso per sempre quello che sono, mi sarei affezionato così tanto all’idea di avere David Bowie come direttore artistico delle grandi celebrazioni). E gli alieni, a differenza di tutti quanti gli altri, possono anche correre il rischio di non essere infelici.
(estratto dal primo volume)
©Andrea Rossetti