L’UOMO DISINCANTATO – “La Luna” (3)

Il “CineMoon” era stato costruito dopo la guerra, tra gli anni ’40 e ’50, da una piccola società di ebrei ashkenaziti tedeschi scappati in fretta e furia dalla Germania per sfuggire alla persecuzione nazista e stabilitisi a Londra dopo aver acquistato alcuni appartamenti in un caseggiato residenziale nei pressi di Golders Green Road con la speranza di poter cominciare in pace una nuova esistenza a partire perlomeno dalla custodia degli antichi legami famigliari, religiosi e di amicizia, e da quella passione anomala e indecifrabile che è la fiducia in se stessi quando amalgama la tristezza della memoria e l’ostinazione della volontà col sangue e le lacrime che fuoriescono da certi sfregi letali, affinché si sia obbligati per tutta la vita a convivere, a prescindere dalla buona o dalla cattiva sorte, con una specie sentimentale di emofilia piagnucolosa che guasta inesorabilmente la sorgente degli affetti. La sala di proiezione era rimasta in attività per circa dieci anni, riscuotendo tra l’altro anche un buon successo visto che era l’unico luogo di aggregazione e di svago di quel vasto quartiere che pareva fatto apposta per disperdere e allontanare. La gente ci si recava con largo anticipo sugli orari degli spettacoli per fare in santa pace la fila alla biglietteria e scegliere i posti migliori in sala avendo poi anche tutto il tempo di passare al baracchino che stava in fondo all’atrio, tra la tenda sinuosa e pesante che proteggeva l’ingresso dalla luce esterna e quella, identica, che a sua volta schermava l’uscita, per comprare le caramelle, i bastoncini di liquirizia, lo zucchero filato ma soprattutto le grandi vaschette colorate traboccanti di pop-corn unti di burro e sempre troppo salati. Era però specialmente per poter chiacchierare a lungo che la gente cercava di arrivare prima dell’inizio delle proiezioni giacché considerava quel piccolo cinema di quartiere, a prescindere dalla sua specifica funzione, un luogo a parte, emozionante e ineguagliabile, creato appositamente per ambientare, come fossero gli svolazzi di una firma in bella calligrafia posta in calce a un altrimenti monotono documento battuto a macchina, ogni singola varietà di libero sentimento e qualsiasi slancio dell’immaginazione; era la pagina comprensiva e ideale di un’infinità di diari intimi sovrapposti, traboccanti di confidenze fatte a tutti e a nessuno, e tramati con caotica allegria dal dispiegarsi lieve della conversazione lungo innumerevoli correnti narrative – ciascuna prima o poi lasciata in sospeso, a pendere dalle labbra delle parole, in attesa di essere riannodata a un’altra più recente oppure abbandonata una volta per tutte all’euforia logorroica della disattenzione – sotto forma di racconti estemporanei di ordinarie vicende quotidiane o anche solo, con toni senz’altro più pittoreschi, di dispute tra tifosi di una squadra di calcio qualunque, che tutt’intorno al cinema animavano un numero potenzialmente infinito di piccoli e volubili assembramenti chiassosi nei quali si raggruppavano senza distinzioni i vecchi amici e i nuovi arrivati; là ci si poteva parlare tutti nella lingua meravigliosa del reciproco riconoscimento, e coltivare simpatie e infatuazioni, oppure soltanto trattenersi in disparte nella speranza di incontrare, sempre facendo finta di niente e senza mai dare nell’occhio, chi – per un’innata e definitiva timidezza – si riusciva ad amare unicamente dietro lo schermo romantico e silenzioso dei propri pensieri. Chiunque sfiorasse lo sfavillio benedicente di quell’insegna, che ogni giorno si accendeva puntuale sul dorso del quartiere, quasi fosse un’apparizione miracolosa spuntata all’improvviso sopra la schiena irta di osteodermiche asperità di uno stegosauro, per un motivo o per un altro non riusciva poi a tornare spontaneamente a casa, anche dopo aver girovagato per ore e ore negli anfratti più dolenti della notte londinese, magari pure da ubriaco o da drogato, senza avere con sé da qualche parte, alle volte ignorandone addirittura l’esistenza, ventiquattro fotogrammi precisi di una passione qualsiasi, buona per dare inizio a tutto il tempo del giorno successivo.

(estratto dal primo volume)

©Andrea Rossetti

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