C’era, a non molta distanza da dove abitavo, un vecchio cinema – il “CineMoon” – che noi ragazzini chiamavamo semplicemente “la Luna”. Non di rado nel circondario capitava di sentire qualcuno di noi che, per avvertire chi si trovava in casa prima di uscire, diceva a voce alta: “Faccio un salto fino alla Luna per vedere se c’è qualcuno e poi torno”. Dentro di me, che dalla comparsa prepotente della distrazione ero ben consapevole di vivere – e d’altra parte lo mostravo all’esterno senza troppe precauzioni sia nei gusti che negli atteggiamenti – in quello stato che gli adulti – con lo zelo sbrigativo che mi pareva avessero solo quando si trattava di dare per scontate, non senza prima montare in cattedra per giudicarle, le cose migliori della nostra giovinezza (zelo in cui peraltro si esercitavano ogni giorno tra i grigiori saccenti di quella maturità che faceva da paravento al loro monotono ossequio del conformismo) – bollavano spregiativamente come “testa tra le nuvole”, tali etichette e diciture, evocavano un luogo che rasentava i limiti ideali della massima perfezione, proprio come succede che certi suoni, odori, immagini o impressioni tattili niente più che banali abbiano invece il potere di ricostruire un’atmosfera che non appartiene direttamente a loro ma ai pensieri di chi, riconoscendola, la trafuga in segreto a beneficio della propria inventiva, elevandola al rango di un vero e proprio progresso spirituale. Poter dire o anche solo pensare di raggiungere “la Luna”, oppure sentire per caso, da dietro la finestra appena un po’ schiusa della mia camera o mentre, quasi sempre da solo, me ne andavo a zonzo per il rione o restavo seduto per ore su un marciapiede a guardare i collage dei manifesti pubblicitari, con tutti quegli strappi che guarda caso mi parevano altrettanti drappeggi, incollati uno sull’altro quasi fossero tappeti volanti stesi da qualche re mago ad asciugare in piena Londra, che i miei coetanei, come tanti satelliti lillipuziani dei miei pensieri, si davano appuntamento “nei dintorni della Luna”, mi proiettava nella diversità assoluta di un mondo abbagliante, percorso da astronavi e da razzi alimentati a fotoni gamma che, sfruttando l’antimateria, potevano viaggiare a una velocità di poco inferiore a quella della luce; un universo popolato da astronauti, umanoidi e da creature aliene ma fatto anche, nella sua smisurata estensione, di infinito silenzio, di pace inquieta, di spazi siderali, di sconfinate solitudini interstellari solcate soltanto da meteoriti galleggianti e da qualche pezzetto di coda che le comete, come tante lucertole in fuga dal tempo, abbandonavano indietro, ingannevoli nello spazio, a raffreddarsi. E quando poi, in prossimità della sera, l’ultima luce del giorno si metteva a sfavillare sulla città in una specie di immensa distesa di anemoni che, a partire dal rosso cremisi, si sfibrava una prima volta, tra scie porporine, nel rosa confetto, per poi lasciarsi precipitare, insieme alle aureole lattescenti dei lampioni finalmente accesi, nel bianco più assoluto, ai miei occhi, sopra l’insegna spenta del “CineMoon”, con la sua buia e sottile falce di luna e la piccola stella senza luce posta in cima, stava in equilibrio, come un acrobata circense, tutto il cielo possibile.
Era per la verità un edificio banale, privo del benché minimo pregio architettonico, una specie di parallelepipedo rettangolo dall’intonaco color mattone incorniciato su due dei suoi quattro lati da altrettante strade piuttosto malmesse: la prima era poco più larga di un vicolo e se ne stava in disparte, a prima vista conficcata all’infinito, metro dopo metro, come un ecoscandaglio d’asfalto, in un graduale e sorprendente silenzio che disorientava la normale percezione acustica del paesaggio urbano immettendovi un palpito quasi metafisico; l’altra invece, più ampia e trafficata, era una tipica via di scorrimento, un posto qualsiasi, replica sommaria di infiniti altri luoghi qualunque sparsi per la città, un’arteria decorosa nella quale lo spirito della metropoli pulsava il suo stile di vita seducendo malgrado tutto una serie senza fine di automobili e specialmente di pedoni, i quali, con quel poco di emotività che è concessa perfino alle abitudini, venivano assorbiti, come tanti passi sopra una moquette, da quell’assordante scenografia di sottintesa indifferenza collettiva che tuttavia, in quanto condivisa, riusciva a essere a modo suo confidenziale.
Ricordo che a quei tempi mi capitava spesso di osservare come Londra fosse in realtà talmente ricca di dettagli e di possibili particolari che sarebbe stata un posto terribilmente inospitale per un individuo dallo sguardo davvero attento o con una seria indole contemplativa in quanto, a lungo andare, imponendogli eccessi ossessivi di applicazione, l’avrebbe paralizzato e condotto a uno stato d’inerzia esasperante, che poi quasi tutti avrebbero scambiato per inettitudine e per misantropia, due inclinazioni incompatibili con quella specie particolare di vita umana che sola si concilia con la grande città e che necessita invece di sovrappensiero, di anonimato socievole e produttivo, della ripetitività schematica di cose semplici da fare, siano esse soliti doveri oppure svaghi programmati, e dell’indulgenza di una solitudine chiassosa fatta di rispettabilità, di ruoli, di carriere, di educazione civica e di rapporti di buon vicinato.
(estratto dal primo volume)
©Andrea Rossetti