L’UOMO DISINCANTATO – La libertà è in subbuglio.

Una volta in albergo, quando mancavano ancora due ore al suo appuntamento con Charlotte, Milica si sentiva stranamente in subbuglio. Continuava a muoversi avanti e indietro – incapace di trovare  una cornice spaziale di riferimento e un punto d’appoggio più o meno definitivo – e osservava con ansia e disagio i suoi piccoli seni riflessi nell’imponente specchio del bagno di quella camera elegante in cui si era rifugiata difilato, senza peraltro riuscire ancora a decifrare i lineamenti di una condizione emotiva che le ricordava in fondo solo il volo rischioso e potenzialmente letale di uno sparviero con un’ala ferita. Si truccava e struccava in modo compulsivo, senza una volontà precisa e in preda a repentini scatti di nervosismo. In quel momento il trucco era per lei più che altro un modo tollerabile e incruento di sfigurarsi. Ciò che le stava accadendo era un mistero diffuso, a tratti disturbante, che le faceva presagire anche per l’immediato futuro ben pochi sprazzi di vera luce e viceversa molta penombra distesa, indecifrabile e morbida, come la sensazione di due labbra dischiuse in un bacio, a sfiorarle la pelle.
Si domandava insistentemente chi mai fosse questa Charlotte e poi, come rientrando a tratti in se stessa da una porta a vento, che senso avesse il suo strano invito a raggiungerla a Weimar così in fretta e furia. Il contenuto della brevissima lettera che le aveva inviato, d’altra parte, era senz’altro gentile ma pure sostanzialmente indecifrabile, laconico, e sprigionava una luce puramente emotiva, prendendo a modello la buona promessa di saldare un debito. Milica non era mai stata una donna curiosa, c’era sempre stata in lei una sorta di pace innocente, a volte forse infantile ma mai capricciosa. Non aveva bisogno di imparare ad aspettare, l’attesa per lei era scritta nella natura, era la chiave di volta di ogni suggestione che via via l’attraversava. E comunque, da quando si era infilata nel tunnel un po’ artificioso e molto azzardato di quel viaggio che, come prima cosa, le aveva imposto con una sorprendente imperiosità di prendere le distanze dall’ormai abituale presenza di Elias (alla quale in precedenza aveva invece giurato fedeltà perenne), mentre si lasciava precipitare senz’ombra di sentimentalismi nell’incapacità acquisita di realizzare con sicurezza i tratti dei volti delle persone e, a corollario, un paesaggio verosimile, si cullava nell’impressione che almeno la sua bellezza esteriore stesse finalmente crescendo a dismisura.
A Milica batteva il cuore: per la prima volta dopo tanto tempo, mentre se ne stava a suo agio nel bizzarro andamento di quella trasformazione orfana di tutto ciò che l’aveva preceduta, lei sentiva nitide le pulsazioni del suo cuore e finalmente indovinava di essere viva per davvero.
Nel frattempo, senza per nulla patire il freddo, Charlotte stava già uscendo dal portone dell’edificio nel quale abitava, in Amalienstrasse, non lontano dalla Goethehaus. Aveva già quasi terminato di fumare la prima sigaretta della giornata, perché – pensava – una donna libera e di larghe vedute come lei doveva pur essere contenuta nei limiti di qualche vizio, pena la tentazione della metafisica e, a seguire, l’avvento della più insormontabile delle infelicità. In verità, di vizi veri e propri non ne aveva che due: uno era appunto il fumo e l’altro un appetito sessuale vertiginoso e feroce che, tuttavia, finiva sempre per manifestarsi addolcito dalla tipica, malinconica timidezza cancerina che l’agghindava. All’epoca aveva quarant’anni ma ne dimostrava venti, era magrissima e piuttosto alta, aveva trasparenti occhi color nocciola con riflessi verde smeraldo e portava i capelli castani lisci e lunghi fin sotto le scapole. L’unicità della sua bellezza non era nella perfezione dei tratti ma nella loro impudente e tenera distanza da ogni cosa. Charlotte era come il sorriso di un’ombra. Era impossibile per gli uomini non sentirsene oltraggiati e, quindi, disperatamente innamorati.
“Oggi ho caricato a salve la mia gioia, mio caro Engelbert, così nessuno si farà male, anche se poi in ogni caso l’ho sempre sparata solo in aria, spacciandola per felicità, a scopo puramente intimidatorio…” disse rivolgendosi con un lieve sorriso un po’ scanzonato al portiere del palazzo che dal canto suo, essendo già ubriaco di prima mattina, accennò, senza intendere né volere, un rispettoso cenno di saluto dall’interno della sua guardiola.

(estratto dal secondo volume)

©Andrea Rossetti

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