A non molta distanza in linea d’aria dall’All England Lawn Tennis and Croquet Club, su una delle strade principali, perfettamente perpendicolare a quella dove sorgeva il Digamma Cottage, c’era un elegante condominio borghese di prestigio chiamato Farewell Mansion, nel quale viveva con la sua famiglia Oedipa Boot, la sottosegretaria dell’ormai arcinoto comitato preposto all’organizzazione dei festeggiamenti per il centenario del torneo di Wimbledon nonché del coincidente giubileo della regina, quell’anno attesa in via del tutto eccezionale al Royal Box in occasione delle finali.
La signora in questione occupava l’appartamento al secondo piano insieme al marito, Brett W. Boot, un segaligno e austero quasi sessantenne con pochi capelli tutti ancora biondi, a suo tempo laureato in lingue orientali a Cambridge col massimo dei voti, e di professione componente esterno del comitato di politica finanziaria della Banca d’Inghilterra e vice presidente del consiglio d’amministrazione di un’azienda chimica di prodotti per l’agricoltura. Lei, invece – Oedipa – non lavorava; aveva un’età indefinibile, comunque notevolmente inferiore a quella del marito, era alta, snella, bionda, e ogni volta che Peter la incrociava mentre, inguainata in una tuta alla moda, faceva jogging, aveva la sensazione che lasciasse impressa nell’aria intorno a sé l’idea di un animale elegante e veloce, tipo una gazzella, un levriero o un ghepardo, a seconda dello stato d’animo che, come un campo elettromagnetico, ne accompagnava di volta in volta la corsa e il rapido passaggio. Oedipa aveva un fisico tonico, due belle gambe, un seno rotondo, due natiche perfettamente disegnate, insomma piaceva molto agli uomini e quindi anche a Peter. Gli piaceva soprattutto in quanto era ben consapevole di non aver mai e poi mai desiderato una donna simile prima di allora e perché in lei sentiva degnamente inaugurate, dense di molte fascinazioni che fortificavano anche la sua naturale consapevolezza del pesante rimaneggiamento retorico che agisce sempre sulle passioni, la curiosità per la resa e la gioia di essersi dato per vinto sottomettendosi senza condizioni alla metamorfosi sentimentale che gli era stata imposta da quell’imperiosa anomalia del desiderio.
Quando li avevano presentati per la prima volta, Oedipa Boot si era destreggiata con elegante compostezza stampando subito sugli occhi di Peter la brevità cortese di un sorriso di circostanza e porgendogli poi la mano come una cosa molle, disponibile, ma al tempo stesso anche elettrica e guardinga, rievocando in lui il ricordo dell’atmosfera che ai tempi della scuola caratterizzava sempre ogni partenza per una gita, quando tutti si mettevano in viaggio cullando la speranza di riuscire finalmente a flirtare con l’unico oggetto dei propri desideri.
Nata in Michigan, Oedipa Boot non poteva scrollarsi di dosso quella timidezza luminosa delle ninfe dei laghi, sempre un po’ abbagliate da velature di luce, come in un quadro di Turner, e così ogni sorriso, ogni risata, scolpivano ai lati della sua bocca due fossette, perché ridere in un modo tanto dettagliato e riconoscibile apre lo spazio, illumina la strada, ha tutta la verità di un tempo che si credeva perduto e che, invece, si scopre ritrovato, incessantemente presente, un mondo adolescente che è galassia, costellazione e stella, e poi vento fresco sul viso e canto notturno di grilli incoscienti. Quella donna era il compimento eterodosso dei sogni di Peter e perciò in un certo senso li umiliava sviandoli con l’inganno, tessendone, da vera americana, il filo di seta che li spiegava e all’occorrenza li piegava alla morbidezza, facendone per sé abito e corolla.
Fin dall’inizio Peter era stato ben consapevole del fatto che, se mai gli fosse appartenuta completamente, una donna come Oedipa Boot l’avrebbe fatto solo con l’assoluta, smisurata libertà del pallore di un disegno abbozzato da una matita, mantenendo cioè la debita distanza dal chiaroscuro e soprattutto quella da ogni possibile colore.
I coniugi Boot avevano una figlia sola, Tea, una ragazzina taciturna che, anonima ed evanescente nell’indispensabile garbo del suo pallore, appariva sempre, quasi non fosse altro che la sagoma scorrevole di una quinta teatrale, sullo sfondo degli avvenimenti mondani dietro i quali era di volta in volta chiamata a fare almeno capolino. Per anni e per tutti era stata soltanto una piccola creatura senza un volto specifico, delicatamente segregata all’interno di un’invisibile marginalità che, sebbene piuttosto drastica, non le aveva comunque impedito di godere del fumo elegante dell’indiscussa appartenenza della sua famiglia alla migliore borghesia londinese. A un certo punto, però, qualcosa era cambiato: d’un tratto si era sentita l’ospite introversa e smarrita di quel suo nome breve e floreale e avrebbe voluto che le spade segrete che le tormentavano l’anima fossero state perlomeno altrettante spine di rosa – spine di Tea – capaci di distogliere il suo dolore dalla sproporzionata intimità di costanti emorragie del cuore grazie all’allegria colorata dei loro petali superbi, così da sentire in sé la fioritura accantonare, gioiosa di canicola e acquazzoni e profumata di fieno e ciclamini, ogni spregevole odore di massacro.
Lei detestava in silenzio la Pasqua del Signore, lo faceva da quella trascurabile bambina che per la gente era ancora, e odiava d’istinto l’urlo inutile degli agnelli sgozzati, di tutti i sacrifici sui quali piangeva insistentemente, ogni volta però sorridendo, attenta per educazione a non permettersi l’uso di lacrime pericolose, perché le lacrime – glielo avevano insegnato con qualche strano giro di parole a catechismo – sono la riserva di caccia esclusiva di Dio. Eppure Tea era irremovibile nel preferire il colore dei petali a quello del sangue e pensava che, forse, era così perché di nascosto lei si sentiva da sempre un insetto volante, perché il suo nome breve, del quale era l’ospite piccina, aveva sì tante lettere quante ne aveva il nome della rosa, ma anche quello della mosca.
Nell’indolenza infantile, eredità cantilenata di un nodo in gola tanto stretto da sembrare definitivo, cercava istintivamente un riparo leale dai suoi nuovi sogni, così come inseguiva nella freschezza consolidata dei pochi anni di vita già trascorsi un ristoro alla calura che si ventilava feroce, di spalle al numero crescente dei desideri. La sua esistenza si annunciava silenziosa, murata dietro poche parole, essa si contorceva in un lungo pensiero disumano, severamente mancante di voce, leccato con eccentrico amore da qualcosa che ricordava un po’ la lingua di un serpente. La ragazzina, infatti, soffriva da qualche tempo di allucinazioni inconfessabili che però non osava ancora chiamare incubi.
Da quando poi nella sua vita erano arrivati quel sangue doloroso tra le gambe, dall’odore così melenso, e di seguito, non meno inaspettato, il terrore per gli altri, soprattutto per i suoi coetanei, era sprofondata senza darlo a vedere in un’inquietudine intirizzita, in balia della sensazione che l’età sulla quale suo malgrado si stava affacciando non fosse che un tempo nato per essere oscuro e sciagurato. Restava lontana da tutti, evitando il più possibile contatti fisici, non osava toccare o anche solo avvicinarsi troppo a qualcuno, ossessionata dal pensiero indeterminato di una sorta di strisciante lebbra morale; preferiva camminare su strade appartate e, non vista, spiava da lontano i giochi allegri delle sue amiche di un tempo, quelle che erano rimaste ancora bambine, e poi osservava il cielo, come fosse una rara malattia soprannaturale, una smisurata maledizione, un’umana scorciatoia per bestemmiare il nulla dandogli ingenuamente il nome di Dio.
(estratto dal secondo volume)
©Andrea Rossetti