Man mano che, a partire ovviamente da me stesso e dalla mia storia, procedevo nel tentativo di descrivere, analizzare e capire meglio il disincanto per quello che esso è realmente (non quindi un sentimento, come ad esempio si potrebbe definire la disillusione, che, considerata spesso ma con colpevole approssimazione una specie di sinonimo, si spiega invece tutta e senza intoppi in termini di pessimismo rispetto a una determinata chimera o addirittura all’esito complessivo della vita stessa; bensì uno stato, una condizione, un destino, qualcosa di radicato in quelle profondità universali là dove biologia e psicologia, quasi danzando, s’intrecciano e si confondono per poi tornare a distinguersi tra determinismo e invenzione), ne andavo delineando in modo sempre più accorto un’idea tanto stabile e sicura quanto sfaccettata, elusiva e incessantemente cangiante. Avevo compreso così, a poco a poco, che se i modi fondamentali del disincanto erano l’adattamento e la mimetizzazione, la sua essenza unitaria era piuttosto il movimento, un’espansione interminabile fatta malgrado tutto di tempo e nel tempo e scandita da manifestazioni assolutamente coerenti e pressoché illimitate. Per questo non avevo tardato a riconoscerlo anche in certi miei antichi malanni, dichiarati dai medici curabili ma non del tutto guaribili, come gli improvvisi attacchi d’asma, che l’allenamento e i miei successi tennistici avevano tuttavia abbondantemente diradati, e le fastidiose allergie e gli eczemi che fin da bambino tormentavano la mia cute, soprattutto sui piedi, sulle mani e sul petto, dalla parte del cuore. Ero stato e continuavo a essere fisicamente più fragile proprio nei luoghi materiali del mio rapporto più immediato e diretto col mondo, ovvero il respiro e la pelle, quasi che, prima di tutto, un confine disincantato, per essere davvero tale, dovesse rappresentare una tangibile sofferenza e comportare un’effettiva, sia pur minima, disabilità.
Eppure, grazie a un’inusuale e vertiginosa voglia di stravolgimenti, accesa ma anche trattenuta sulle prime da un pacato trambusto interiore di passioni fin troppo frettolose e aggressive – una specie di estrema adolescenza staminale – e poi sospinta subito a precipizio, tra onde sanguigne di concretezza, dall’imprevista maturità di desideri fattisi da un giorno all’altro quasi tutti ultra-giovanili, sino al placido estuario della mia volontà più profonda, che, come un’euforica tormenta soffiata via dal seno felice di una burrasca, aveva distanziato i miei sentimenti disperdendoli, irrimediabilmente a largo e in solitudine, lontani dalle molte e fragili, ma a modo loro anche protettive, insicurezze che fino ad allora li avevano custoditi, mi ero deciso – non saprei specificare con adeguata esattezza come e ancor meno quando – a fare qualcosa di assolutamente inconsueto per la mia natura, che da sempre preferiva lasciarsi cullare tra la possibilità di un rinvio e l’eventualità di una scappatoia: cercare a tutti i costi un modo per conoscere Tamara, per rompere il ghiaccio con lei, calandomi finalmente anch’io, come tutti gli altri, nella vita vera; e all’inizio, succubo della mia timidezza ed esaltato dalla mia inesperienza, avevo pensato che bastasse passarle davanti ogni volta che andavo agli allenamenti, ostentando con spavalda fierezza il mio costoso abbigliamento da tennista già quasi professionista, la borsa in spalla piena di racchette, ciascuna accordata in modo leggermente diverso, e i capelli appena un po’ lunghi, trattenuti sulla fronte e sulle tempie da fasce marcate col coccodrillo Lacoste.
A quei miei fugaci e ripetuti esperimenti di puerile esibizionismo, artificiosamente organizzati in modo da sembrare sempre eventi casuali, Tamara non aveva però mai accordato alcun riscontro: neppure un solo, volatile e sperduto lampo di considerazione o perlomeno l’effimera elemosina dell’angolo anonimo di una qualsiasi delle insistenti occhiate curiose che pure non smetteva di sparpagliare intorno a sé, fosse anche di quella meno importante e più breve, sfuggita magari per errore ai suoi occhi bellissimi, priva di oggetto e addirittura di motivazione, come una sorta di guizzo generoso fine a se stesso, posto sul bordo svagato della sua massima noncuranza; o all’opposto – e in quel momento, solo perché proveniente da lei, l’avrei comunque considerato un dono – uno sguardo preciso, rivolto proprio e solo a me, quantunque altezzoso o perfino di scherno.
In verità, però, avevo l’impressione che lei non guardasse davvero mai niente e nessuno, che il suo sguardo lieve, cioè, le vagasse libero tutt’intorno, disamorato e intento solo a mettere a fuoco, senza dover nutrire la vera e propria speranza di un oggetto, il centro vuoto di un remotissimo – e perciò fondamentalmente felice – eterno nulla.
Eppure, man mano che passavano i giorni, i miei pensieri non potevano fare a meno di concentrarsi su di lei con un’enfasi crescente. Era come se stessi annegando senza avere alcuna necessità ma soprattutto nessuna voglia di salvarmi. Respiravo a pieni polmoni l’ebbrezza di un liquido amniotico ideale.
Mi sentivo ancora oppresso tra la sensazione di banalizzarmi definitivamente nel caso in cui mi fossi fatto avanti e l’infelice viltà di fatto di chi a prescindere si tira indietro. Tamara mi rendeva un perpetuo malinteso felice. In fondo amavo ancora, rampicante, quei soliti movimenti che tornavano e tornano su loro stessi conservando sempre il sapore di un’eternità solo formale e non concettosa, come le ventiquattro ore, le quattro stagioni, i dodici mesi, le capriole dei bambini e i valzer delle debuttanti. Ma lei, Tamara, non ero più capace di avvertirla soltanto, di ripetermi nel sognarla: avevo bisogno di una prossimità dolce della quale prendermi cura.
(estratto dal primo volume)
©Andrea Rossetti