All’origine del cambiamento c’era stata l’apparizione improvvisa tra le amiche del cuore di una ragazzina davvero bellissima che comunque, a osservarla così, di nascosto e dall’alto, ogni volta che i miei occhi la ponevano istintivamente sullo stesso piano di tutte le altre, da principio mi aveva trasmesso a malapena l’impressione anonima e sbrigativa di avere all’incirca la mia stessa età; e che poi però, mentre prendevo confidenza con l’imperativo dei fatti e mi lasciavo trascinare dal trascorrere leggero e un po’ mellifluo di quei giorni estremi pervasi da una strana sensazione di confine, era riuscita a poco a poco a lambire sempre più insistentemente il mio sguardo, sino a circuirlo del tutto.
L’assidua marginalità dalla quale lei, sempre ostentando l’aria sfaccendata tipica di chi, potendoselo permettere, ama vivere con la testa tra le nuvole, si limitava a occhieggiare in tralice il piccolo mondo concluso delle amiche del cuore, mantenendo il punto di vista alieno di un coinvolgimento insignificante e comunque fedele all’attitudine, tanto severa nel disegnare il perimetro del distacco quanto gioiosa e priva di inclinazioni punitive al momento di tradurlo in pratica, di un al di qua introverso e refrattario a ogni forma di appartenenza, era in fondo molto simile a quella da voyeur che, sebbene più statica e banale, relegava me all’ombra orgogliosamente infelice del mio balcone; e tutto questo, giorno dopo giorno, aveva finito per imporla anche ai miei pensieri, mettendoli in balia di un incanto graduale ma inesorabile, sospeso tra il senso dell’amore vero e quello dell’autentico calcolo, mentre lei, sempre fuori dal tempo e in disparte dal mondo, quale vera bellezza in grado di compiersi infine solo nell’eccesso di sé, mi donava, quantunque dalla voce di sua madre che la richiamava in casa per la cena, il suo splendido nome: Tamara. Tutt’a un tratto il mio sguardo aveva cominciato a lasciarsi andare allo strano imperativo imposto dalla sua presenza e, col trascorrere dei giorni, mentre, sia pure entro i confini ancora intimi di un’attenta disinvoltura, si abbandonava all’assoluta novità di quella sensazione, si era infine fatto soggiogare dal bisogno di rimanerle incollato addosso, riconoscendole, in ragione della meraviglia di un fragile e incognito turbamento, tanto sprovvisto di riserve quanto prima di allora inimmaginabile, il diritto di imporsi come l’unico essere vivente in grado di suscitare nei miei pensieri il desiderio e la volontà di attribuire la giusta risonanza sentimentale al bisogno di una dedizione inconsueta, finalmente tangibile, destinata a disorientarmi – subito, daccapo, e quindi, e sempre di più, una volta ancora – a motivo della sua inebriante e limpida verosimiglianza, accesa dalle fibrillazioni materiali di un desiderio semplice che, in quanto dedito a giustificare l’impossibile ragionevolezza della felicità, non poteva poi fare a meno di attingere, innocentemente libero da dubbi e da sensi di colpa, così come dal flusso comprimario di mille e mille rimorsi, all’onesto equilibrio del disordine e allo sciabordio immaginario di un’intima, bellissima confusione.
Tamara, bellezza appena fiorita ma già terribilmente assoluta, coi suoi seni sodi e grandi da donna fatta, le gambe snelle, gli occhi guizzanti color nocciola, i lunghi capelli castani sempre spartiti alla perfezione in due soffici onde da una riga centrale e un sorriso svagato e malizioso era un arco aggettante che all’improvviso, dispiegandosi sul baratro delle mie fin troppo rassicurate insicurezze, congiungeva la mia esistenza alla necessità imprevista di una prospettiva materiale.
Il mio sguardo, fattosi improvvisamente più denso rispetto a tutti quelli che l’avevano preceduto, galleggiava su di lei come una pagliuzza caduta dentro un cucchiaio di miele; e ancora l’avvolgeva instancabile, trafugando rapito ogni volta un altro po’ del tempo a sua disposizione per poterla sempre più a lungo – e in ogni caso gioiosamente – decorare con gli sprazzi fitti di un riguardo straordinario, intriso di quelle scie di luce che, tipiche dell’incostante chiarore pomeridiano londinese, distendendosi appena e di tanto in tanto in pallidi aloni per poi intrecciarsi tra di loro sino a dare forma compiuta all’abituale credibilità della sera, si fanno a poco a poco più ambrate; e quindi la seguiva piano mentre attraversava la strada o le guizzava appresso quando, molto più rapida rispetto alle amiche del cuore, non avendo dal canto suo altro scopo che l’allegria suprema della sua solitudine, gironzolava qua e là, senza avere una direzione e ancor meno una meta, sul selciato bruno dei marciapiedi o sull’asfalto imbiancato dai sassosi reticoli delle loro fratture.
Io la guardavo mentre scivolava via sotto la pensilina della fermata degli autobus oppure quando attraversava la strada andando prima avanti e poi indietro senza avere mai un motivo verosimile per farlo e ancor meno per rifarlo; e poi un poco più in là dove, ben al di sopra di questi suoi stravaganti movimenti e all’estremità massima, e perciò quasi dolorosa, del mio campo visivo, simili in tutto a una moltitudine frenetica di vele e di bandiere spiegate sui pennacchi più alti e fieri dell’aria aperta e lungo le creste sempre in fuga del vento ottuso e salmodiante di Londra, sovrastandola con la più solenne delle distanze di cui erano capaci grazie a una prospettiva perfetta e appena adagiata sul fianco a noi visibile del cielo, sventolavano, indistinguibili da lontano ma tutti comunque candidi nella medesima profondità fiabesca del loro infinito parsimonioso e indifferenti al mondo come le anime fantastiche di angeli migratori, i panni dei bucati stesi sopra le terrazze e dai balconi.
Ovunque andasse o fosse Tamara il mondo d’un tratto si dilatava dentro i miei occhi sotto forma di un pensiero appassionante e poi in segreto prendeva corpo e cominciava a profumare di dolci promesse, come un tino immaginario ripieno di mosto.
Mentre a causa di una svogliata abitudine cercavo ancora per me un nascondiglio sicuro all’ombra del mio balcone, mi accorgevo invece di desiderare che lei – e solo lei – finalmente si accorgesse di me.
Guardami!, pensavo; e intanto il battito del mio cuore si perdeva ascoltandosi all’infinito e una lacrima di gioia ancora pietrificata si incideva come un piccolo graffio sul mio viso.
Sempre più spesso sognavo a occhi aperti di sedermi accanto a lei – per fare e per dire poi chissà che cosa – sul bordo del marciapiede di quella strada così banale, che spartiva in segmenti brevi e quasi uguali il piccolo spazio segreto consentito al mio sguardo dalla semplice geometria di un semplice balcone; oppure nel parco, che riuscivo a scorgere appena sul fondo, in disparte, nel bel mezzo di un giorno di primavera o ai margini tiepidi dell’autunno, sopra una di quelle panchine vittoriane sempre più malamente imbiancate.
Sediamoci – pensavo – perché ho voglia, amore mio, di dare ascolto anche alla tua mancanza, sediamoci qui, ti prego, per non doverci comunque allontanare. Vorrei trafugarti – fantasticavo con trepidazione già appena sveglio ogni mattina – alla rinfusa nel mio letto, in andante penombra spianata, qui sotto le lenzuola di seta ocra e scivolosa, in mezzo alla segreta semina burrosa di briciole soffici, intatte però quanto a dolcezza, del mio plum-cake mattutino, sfatto a furia di piccoli bagni nel tè nero alla mandorla amara. Vorrei annusare la tua spina dorsale, che hai tanto perfettamente trapuntata sottopelle, e fare un calco delle tue scapole angelicate dagli arcobaleni amniotici dell’innocenza con le loro sempre cangianti rifrazioni piumate, usando il pulviscolo che impasta la luce con la teatrale rivelazione di se stessa. Vorrei davvero ascoltarti con cura quando taci e scoprire così la grammatura esatta del silenzio che sai aggiungere poi a ogni parola, come una spezia esoterica o una correzione liquorosa, sino a renderla inenarrabile non appena detta. Vorrei soffiare sul tuo sguardo per vederlo chiaro e appendere il mio alle tue labbra per sentirlo poi ogni volta che parli. Mi piacerebbe decorare di te i tempi lunghi e scaltri del mio pesante sovrappensiero; saperti prendere senza mai afferrarti e non avere scuse per non guarirti. Perché questo solo io so, amore mio, ombra che sale fino a me e poi scompare: che anche oggi non potrei mai avere un desiderio più giusto da darmi di te.
Avevo intuito – perché in verità si trattava ancora più di un presentimento che di una vera e propria decisione – che la chiave che mi avrebbe spianato la strada verso la conquista di Tamara (oggi mi rendo conto che, per immaturità ed esaltazione, pensavo a lei un po’ come il mio idolo di allora – Napoleone Bonaparte – aveva probabilmente considerato la Russia e la città di Mosca) andasse cercata nella mia crescente e sempre più nitida passione per il tennis. C’è da dire, infatti, che nel frattempo avevo fatto progressi incredibili in quello sport, vincendo anche qualche torneo amatoriale e attirando su di me l’attenzione di alcuni importanti talent scout.
In fondo tutto in me era straordinariamente confuso e preciso.
Le evoluzioni sentimentali della pigrizia e della distrazione, simili ai primi tentativi d’intreccio del verde rampicante, fin nel reciproco scambio, definibile ancora a stento inaugurale, di germogli precoci e di promettenti infiorescenze, che nei giorni acerbi dell’infanzia e in quelli appena più imprevedibili della prima giovinezza, tutti in fondo amalgamati e simili, e ciascuno a modo suo incerto e intuitivo perché come gli altri teneramente bisognoso di semplicità, mi avevano indicato la mia natura disincantata e mostrato al tempo stesso il disincanto non nelle vesti di un qualsiasi atteggiamento caratteriale ma come un destino vero e proprio, la cui ineluttabilità, a differenza di ciò che capitava agli eroi della tragedia greca, in quanto indipendente dall’accadere di eventi già determinati, non era scritta altrove, ma se ne stava ogni giorno di là da venire, condiscendente alla relatività singolare dei giorni e riposta bell’e pronta in qualunque avvenimento possibile, così come si addice agli sviluppi per niente tragici, ma non per questo meno inesorabili, di una vocazione contemporanea. Col sopraggiungere poi di quell’età di mezzo in cui le trasformazioni imposte dalla pubertà si sfilacciano senza troppa cura lasciando spazio alla maturazione – che per un ragazzino è tanto maschile all’esterno quanto nell’intimo, invece, è femminile – della seconda giovinezza, il disincanto mi aveva mostrato anche la terza faccia della mia indole: la volubilità; ogni mia curiosità o passione, infatti, riusciva a imporsi, e quindi a farsi viva in me, unicamente a partire da una sostanziale indipendenza dal proprio oggetto, fino a condurmi a sperimentare quell’ambigua sensazione di felice vastità e di generica onnipotenza grazie alla quale chi ha ancora in dote il tempo per immaginare un’intera vita davanti a sé, come una lunga, profonda e indefinibile opportunità di gloria, si esalta per il semplice fatto di non sapere con esattezza cosa farne.
(estratto dal primo volume)
©Andrea Rossetti