Il tempo, nonostante il nascondimento contemplativo in cui si esauriva ogni mio stato d’animo e al quale dava pieno riscontro un’assorta e rigogliosamente inerte condizione della mia volontà al cospetto dell’esistenza – lontana, esotica e tuttavia palpabile nel mellifluo frusciare via curioso dei miei sguardi – delle amiche del cuore, riusciva comunque a trovare altrove, nell’equilibrio di un contrappunto necessario, le dinamiche e le cadenze giuste di un’accettabile normalità.
Durante quei giorni che, avendo smesso a poco a poco di succedersi, parevano sine die moltiplicarsi solamente, la luce, plasmando come al solito il mondo intorno alla rutilante varietà della vita che esso conteneva e con la quale, per amore di verosimiglianza, non poteva non familiarizzare in qualche modo, mutava scandita da una circolarità sempre accurata ma mai ripetitiva e che anzi, all’opposto e nell’arco vago di tempo di una quiete limpidamente espansa, pullulava di poliedriche epifanie e di variopinte ibridazioni tra larghi aloni generosi, incisi intorno alle cose in forma di profondissime dorature, morbidi chiaroscuri, rispetto a quelli meno vasti ma più abissali e simili a schizzi di sparpagliati roseti in fiore eseguiti a sanguigna, e infine macchie crepuscolari dalla consistenza quasi liquida, acquerellata, veri e propri stupefacenti giochi di colore inflitti alle molte debolezze del viola, qui trapassato da scie porporine e là invece inghiottito da precipizi improvvisi che dal blu di Prussia annegavano in fretta e furia nell’invisibilità più assoluta del buio. Così, scossa di continuo dall’alternanza di carezzevoli chiarori quasi adagiati sul dorso basculante del mio campo visivo e di altrettante, robuste incandescenze perpendicolari, in quei giorni importanti la luce del giorno non faceva altro che bruciare e sbiadire, sostanzialmente irresoluta.
Dopo il risveglio, quando la scuola era chiusa per le vacanze o nei giorni in cui ero malato, cosa che a quell’epoca mi succedeva ancora di frequente a causa della mia salute cagionevole (una caratteristica che, almeno fino a un’età compresa tra i quindici e i sedici anni, è condivisa dalla maggior parte degli adolescenti di costituzione delicata, quelli a cui tocca in sorte di venire al mondo portando sulle spalle il peso del marchio, tanto coccolato dagli adulti quanto irriso dai coetanei, di una bellezza pura e delicata, fragile e fuori moda, simile a quella delle porcellane di una volta, e che perciò maturano rapidamente un’indole taciturna e solitaria), le ore del mattino mi si riversavano addosso leggere, animate da una piacevole frivolezza che mi infervorava con la sua allegria, sbucando ogni volta dalla medesima estremità del mondo, quella compresa cioè tra l’angolo in basso a destra della mia sobria ma elegante scrivania ottocentesca in radica di noce – che, data la mia passione immaginifica per l’ombra e i suoi derivati, facevo in modo che fosse l’unica zona veramente luminosa della mia stanza nell’arco di tempo compreso tra le prime luci dell’alba e mezzogiorno meno un quarto in punto – e le anse lattiginose disegnate con gentilizia duttilità di fronte alle finestre dall’ampia e lunghissima tenda, che era stata tessuta combinando la trama fitta del lino col raffinato merletto portoghese.
Quelle ore felici arrivavano di corsa, all’apparenza tutte insieme, come se volessero riprodurre, non tanto sul momento e di fronte ai miei occhi quanto invece nel lucido segreto accogliente dei miei sentimenti, la stessa, dinamica vivacità con cui, in occasione di ogni nuovo appuntamento, si riversavano in strada, a sprazzi improvvisi di singole apparizioni, le amiche del cuore. Non a caso quei segmenti di tempo, pur senza ovviamente violare mai l’esattezza orologiaia dei canonici sessanta minuti prestabiliti per ciascuno, mi sfidavano ogni volta, trasmettendomi una sensazione incoerente di difettosa e stravagante durata, frastagliati e gioiosi com’erano nel consumarsi tra i ripidi vapori morali delle diverse zone d’ombra che fiorivano intorno all’intuizione di qualche semplice verità fin troppo svagata, e ridotta per questo a pochi, brevi bagliori elementari, a volte strizzata, come d’altro canto e non di rado pure le amiche del cuore, in un suo ideale vitino di vespa, altre invece lungamente effusa tra più mansuete foschie rarefatte che mi ricordavano piuttosto certi ampi abiti casti di mia madre, allusioni diverse ma comunque rassicuranti e sincere all’onestà dell’innocenza, oppure accanto alla certezza scolpita di un’impressione, spesso incantatrice e malinconica.
Le giornate allora erano in un certo senso altre amiche del cuore – riflessi sicuri di una vita in fuga al ritmo intimamente festoso di costanti incertezze indolenti, tenute sotto controllo di volta in volta dalle diverse sfumature di una ricca varietà di anestesie emotive, tanto accurate nel rispetto dei tempi assegnati a ciascuna quanto poi imperscrutabili e vaghe nei loro effetti reali – che ai miei occhi, proprio come quelle otto ragazzine, evocavano un’impressione di liquefatta lontananza, spandendosi in un vortice di immagini limpide, assolutamente felici perché comunque lasciate in sospeso sul sentimento della propria immutabile irraggiungibilità. Le prime ore del giorno erano ovviamente le più acerbe e si facevano largo nella mia vita godendo di una naturale agilità infantile, quasi saltellando; le ore del pomeriggio, che dal canto loro le seguivano oramai profondamente assorbite nel senso di consunzione che evaporava dall’ordito già un po’ bruciacchiato del tempo, mi raggiungevano invece più in ordine sparso, quasi ammansite dal proprio incombere sulle precedenti come una dorsale oceanica concepita in forma di cuneo d’ombra dorata. Ridevano, quelle ore danzanti, e si tenevano per mano, lisciando la luce del giorno sopra le loro chiome con pettini di frumento e spazzole di granturco, mentre trattenevano il sole con l’inganno, levando in alto una moltitudine invisibile di braccia.
A volte mi succedeva anche di avere la sensazione che le ore dell’alba e del mattino tendessero a congiungersi con quelle del primo e del tardo pomeriggio in una specie di festosa quadriglia, in certi momenti piroettando, in altri invece spostandosi piano le une verso le altre, in ossequio a schemi fin troppo precisi considerato il carattere assolutamente fortuito della coreografia che le agitava; e questo appena prima d’inchinarsi per poi retrocedere a turno, sempre con la stessa svagata e reciproca grazia, senza smettere mai di adattare la vuota circolarità del tempo dal quale traevano il proprio moto all’astratta bellezza diacronica dell’andamento di un ritmo musicale, affinché il comune ticchettio di un qualsiasi orologio potesse fare ovunque le veci del battito magistrale di un metronomo.
Le ore serali, invece, si muovevano piano, e solo avanti e indietro, come brevi suite concertanti, allungando a poco a poco le ombre di quanto aveva un luogo visibile e certo sulla terra, per spandersi poi ancora oltre, sempre più vaste e – benché in minima parte lacunose per via di quella sfavillante, commossa compassione che involve il tempo quando, pur essendo chiamato a minacciare la vita con la certezza della morte, non può negarle l’estremo appiglio divino di un costato da trafiggere, così da avere accesso almeno all’idea soprannaturale della provvidenza – già di frequente coincidenti con le singole parti in commedia attribuite a ciascuna dall’approssimazione accorta dei tagli rapidamente calanti della luce, tutti partecipi a prima vista dello stesso languore finale, come innumerevoli guance di ragazzine spolverate appena e per pura curiosità adolescenziale dal primo, leggerissimo inganno di un’ombra di cipria. E tutto questo infine scorreva via giù a precipizio, mentre si aveva l’impressione che le stelle fossero germogliate sui rami degli alberi alla stregua di una moltitudine biancheggiante di minuscoli fiori, finché ogni cosa, tornando d’un tratto in sospeso, non si perdeva nella pace vasta e consolatrice della notte, al ritmo caldo del passaggio di ore talmente definitive da chiudersi scattanti una dopo l’altra come lame di coltelli a serramanico, per poi mettersi in disparte, scintillando, comunque umide di mistero, tra le nebbie e la terra.
Così, mentre mi stavo lasciando guidare dall’ennesimo diversivo del disincanto verso il concepimento e la gestazione della mia nuova aurora emotiva, si disperdeva, pur senza astenersi dal solito corredo di brividi obbligati e di svenevoli malinconie, tutte reazioni implicite nell’ordinario sentimentalismo da cui ero ancora ben lontano dal potermi considerare immune, l’intima, gelata foschia nella quale, sino a quel momento, i miei pensieri e desideri, rapiti com’erano simultaneamente dallo spettacolo beato e luminoso della complicità amicale di otto ragazzine, si erano perduti in una sorta di prodigiosa deriva folleggiante.
Mi sembrava di essere un osservatore affacciato sull’ultima terrazza della rocca di Gibilterra, quella più prossima all’Africa, nel momento esatto in cui il cielo si schiarisce e il mare d’un tratto si quieta in seno all’oceano e viceversa, e allora appaiono, come tanti, affollati pastelli cubisti, le case bianche di Tangeri e le morbide cime, innevate e solenni, dei monti dell’Atlante.
La nuova aurora che allora si stava per inaugurare era quella del tempo, affrancatosi oramai del tutto dalle ultime pastoie sentimentali dell’adolescenza, divenute a poco a poco sempre più guaste e spoglie di ogni pur minima parvenza di dolcezza, della mia prima – e ultima – autentica comitiva di amici; un tempo talmente concreto da potersi concedere il lusso di conservare sullo sfondo un’aura quasi iniziatica di leggendaria imprecisione; un’età crepuscolare ma trapunta di ingannevoli bagliori giovanili che stavo per condividere con alcuni personaggi, tutti piuttosto bizzarri e marginali e perciò stesso adeguati, ognuno da un punto di vista diverso, a soddisfare in me il bisogno inconscio di non gravare con insuccessi mondani e spiacevoli confronti carismatici il fardello originale della mia timidezza, che all’epoca era ancora quasi intatto e ben lontano dal momento in cui le mie affermazioni come tennista, e quindi l’improvvisa popolarità del mio nome nel bel mondo che gravitava intorno al torneo di Wimbledon e al circolo che l’organizzava, l’avrebbero prima svuotato del tutto per poi lasciarlo, finalmente colorato e sottile, come in una sorta di trasfigurazione aerostatica, sospeso a mezz’aria in attesa del suo nuovo destino, impossibile o soltanto diverso che fosse.
A prescindere da ogni altra considerazione, la necessità istintivamente desiderata di quella svolta, del cambiamento infine irrinunciabile, mi stava addosso come un miscuglio nobile di sudore e di profumo; e, sebbene in sostanza coerente con quanto di me avevo già messo a disposizione delle molte realtà stravaganti nelle quali, anno dopo anno, la mia vita aveva finto e finito di prendere sia un senso che un corpo, mi chiamava in causa comunque in un modo assolutamente inconsueto, cioè nel nome di un imperativo tutto rivolto all’operosità e alla partecipazione, disincagliandomi d’un tratto, grazie a un guizzo misterioso di fervore eversivo, dalle secche della pur squisita solitudine contemplativa che sino a quel momento aveva contraddistinto il mio rapporto immaginario con la piccola brigata delle amiche del cuore – alla cui disgregazione mi accingevo a contribuire almeno in parte – e tuttavia nei suoi fondamenti più riposti tutt’altro che discordante; perché la logica del disincanto è sì rigorosa ma, proprio per rimanere tale, nel suo perfetto e costante equilibrio, necessita dell’essenziale e comune leggerezza dei surrogati e delle simulazioni, affinché poi l’esistenza di un uomo disincantato, senza mai venire meno alla sua integrità di fatto e di principio, possa comunque sembrargli, mentre la vive, autentica a sufficienza per essere compatibile con tutto quello che invece è irrimediabilmente altro da sé.
(estratto dal primo volume)
©Andrea Rossetti