Le visite della Lady al mio Digamma Cottage avvenivano sempre in forma strettamente privata e in incognito, trascinandosi dietro un clima di massiccia circospezione che rasentava la paranoia. Ogni volta che con la lucida pacatezza di un ragionamento o anche solo con qualche sortita ironica tentavo di sdrammatizzare e di alleggerire quell’apprensione sproporzionata, affinché le ore seguenti – conquistate normalmente per intero dal libero schiudersi di una tranquilla e appartata intimità – potessero trarre vantaggio anche dall’armonia complessiva di tutto il tempo che mettevamo a nostra disposizione, lei si adombrava prima di fastidio e quindi di malinconia, ed era come se una maschera di polvere livida apparsa d’un tratto sul suo viso venisse poi lentamente lavata via dalla caduta di lacrime immaginarie.
La sua ostinata volontà di riservatezza non si spiegava però con dei fattori esterni – che ne costituivano al massimo il formale pretesto conscio – ma con l’intuitiva considerazione della verità dell’amore come di un nucleo segreto e geneticamente singolare contenuto all’interno del miscuglio insolubile, diverso da persona a persona, di tutte le cellule staminali dell’universo affettivo: emozione, desiderio, attrazione, gelosia, tenerezza, rispetto, abbandono, odio, noia, lutto, paura, empatia, pentimento, disperazione, meraviglia, euforia, sofferenza, nostalgia, rabbia, perdono, vendetta, amicizia, antipatia, simpatia, imbarazzo, gratitudine, invidia, generosità, speranza.
Per lei l’amore non andava grossolanamente identificato con la relazione amorosa, che ne era soltanto un’occasione in linea di fatto e che poteva anche avere, in quanto tale, un suo più o meno discreto carattere pubblico. L’occultamento nel privato le era quindi indispensabile per vedere riflessi nella mia persona e quindi provare a distinguere e a ricomporre all’infinito, in un’appassionata esplorazione, i tratti specifici e le qualità uniche della sfera sentimentale che portava in se stessa e nella quale il suo proprio amore si annidava. D’altra parte era questo per lei l’unico motivo davvero sensato per amare e per essere amata nonché poi la chiave messa a mia disposizione per comprendere l’alone di maestosa fuggevolezza che tutta la tratteneva. Per la Lady amare me era strumentale alla cognizione dell’amore in sé.
In breve tempo tutto questo ci rovesciò addosso in effetti una sorta di naturale pigrizia e provammo sempre meno il bisogno di allontanarci dal Digamma Cottage durante quei nostri incontri.
Dalla camera ottagonale passavamo molto tempo a guardare fuori, ora l’una ora l’altra terrazza, lasciando poi che la luce, colmandosi di infinite sottigliezze cromatiche nel trascorrere delle ore e persino dei minuti, ci inquadrasse attraversando le screziature delle grandi vetrate Tiffany per essere da queste a sua volta acquerellata, mentre noi due, in silenzio e protetti reciprocamente al chiuso delle nostre braccia, interrogavamo il paesaggio che con l’approssimarsi della sera trapassava rapidamente dal verde al nero e dai bagliori annebbiati di una sorta di polvere d’argento a quelli più nitidi del cielo stellato. Allora, presi da un innocente tremore, ci spingevamo con crescente determinazione l’uno verso l’altra, cercando il nostro fiato per scaldarci e finendo per trovare, come l’apparizione splendida del mare al di là delle dune, il punto d’incontro delle nostre labbra, primo fuoco dell’ellisse che, disegnandosi presto con spigliata libertà, di lì a poco avrebbe trovato anche la simmetria del suo gemello.
In quei momenti io e la Lady eravamo un’altra cosa, un’altra creatura, un ermafrodito lunare generato apposta per precipitare dalla notte alla notte senza mai cadere, tenuto in sospeso da un bozzolo di fili di luce tessuti fra le costellazioni. Non vedendoci ci guardavamo, ritrovandoci infine, nascosti come bambini che giocano, al centro esatto della smisurata verità dell’amore dell’uno per l’altra e viceversa. Così come un enunciato che affermi di essere indimostrabile all’interno di un sistema formale significa appunto che esso è vero, dato che non può essere effettivamente dimostrato, noi due ci chiudevamo in noi stessi senza essere in alcun modo circolari, e quindi viziosi, bensì, con assoluta pienezza, fatalmente conclusivi.
Infine ce ne restavamo immobili, accantonandoci di pari passo e mano nella mano, spensierati in un gorgo d’inerzia sempre più viscosa che ci frantumava di nuovo in due parti, senza però la violenza di un colpo di scure bensì con l’agilità quasi introversa del picchiettare di uno scalpello. Nel grembo fecondo di quelle notti ogni cosa si addormentava poi in un ossimoro, senza che le contraddizioni generassero più alcun contrasto: ovunque la persistenza ineluttabile dei limiti accadeva felicemente, come un sepolcro scoperchiato da una resurrezione per la gioia del più assoluto smarrimento, e così la commozione finiva per contenere l’allegria, il desiderio la contemplazione, il sonno la veglia. L’universo intero se ne stava disteso insieme a noi, lungo la durata di quel tempo di quiete, discepolo fedele dell’ermafroditismo miracoloso che aveva appena preso congedo dalla nostra unione.
Gli occhi chiusi della Lady vedevano il buio e i miei, ancora un poco aperti, guardavano lei.
(estratto dal secondo volume)
©Andrea Rossetti