Alla fine, una mattina, a scuola era scoppiato un vero e proprio finimondo. Era giorno di compito in classe di lingua inglese e, come accadeva di regola una volta ogni tre, ci toccava svolgere un tema a piacere anziché una traccia predefinita dall’insegnante. Il preside pareva impazzito e, imprecando ripetutamente contro Sean, voleva addirittura chiamare la polizia e denunciarlo per lesa maestà (nonostante in Inghilterra l’ultima condanna per questo reato risalisse al 1840). I signori McNult, avvertiti per telefono dalla segreteria scolastica, erano arrivati di corsa e, dopo aver rifilato al figlio un paio di ceffoni a testa davanti a tutti, se l’erano portato via strattonandolo in modo plateale mentre lui, senza mai opporre resistenza, continuava a ridacchiare. Io avevo le lacrime agli occhi ma quando, cercando di farmi largo tra la gente, avevo provato a correre verso di lui qualcuno, che non mi ero neppure preoccupato di guardare in faccia girandomi indietro, mi aveva fermato afferrando all’improvviso la mia spalla destra con una presa molto energica. I nostri due sguardi – il mio e quello di Sean – si erano allora incontrati un’ultima volta allo stesso modo di quelli di Gesù Cristo e di San Pietro nel cortile della casa del sommo sacerdote al momento del canto del gallo, perché io, pur senza comprenderne il motivo, mi sentivo addolorato da colpevole, costretto tra la vergogna e il rimorso, come se, arrendendomi tanto facilmente alla mano che mi aveva trattenuto nell’anonimato della folla, l’avessi fatto con un intimo e forse anche grato sollievo, e mi fossi macchiato così di codardia nei confronti del mio amico, una colpa che, attraverso la mia coscienza, pareva in grado di fissarmi negli occhi dalle chiazze d’inchiostro di penna stilografica che mi imbrattavano sempre le mani. Sean, invece, sorridendomi a modo suo, mi aveva appena salutato sussurrando: “Tà mé go maith. Slàn agat!”, che in gaelico irlandese significa: “Io sto bene. Addio!”
Erano state quelle le ultime parole che uno di noi aveva rivolto all’altro nel corso breve della nostra grande amicizia.
In seguito si era saputo che il motivo di tutto quello scandalo era stato il tema di Sean, dedicato alla regina d’Inghilterra. “Elisabetta II – aveva scritto tra le altre cose in due pagine fitte, tanto visionarie e deliranti quanto senza dubbio coraggiose – è una donna che, in quanto legittima erede di un trono che gronda sangue, può davvero andare fiera di avere sulla coscienza la vita e la desolazione di tanti buoni irlandesi, dei quali insieme ai suoi predecessori ha soffocato con ogni strumento l’anelito all’unità e alla libertà. Chi tra gli irlandesi dice di amarla lo fa perché è un traditore della sua terra e uno schifoso protestante, oppure un lurido straniero colonizzatore di terre non sue. Se Sua Maestà dovesse morire oggi, io sarei grato a Dio per questo ma allo stesso tempo ne sarei afflitto, perché il mio desiderio più grande è quello di essere io il prescelto dalla storia per ucciderla, così come fece l’eroe Gaetano Bresci col re d’Italia.”
Quella stessa notte Sean era scappato di casa e, essendo evidentemente già d’accordo con qualcuno, aveva trovato il modo di imbarcarsi per l’Irlanda. Neppure i suoi genitori sapevano di preciso che fine avesse fatto sino alla notizia, propagatasi in fretta sia nel vicinato che tra di noi a scuola, del suo arresto a Londonderry, durante un tafferuglio. In seguito il mio amico era stato incarcerato anche se nessuna accusa precisa era mai stata formulata nei suoi confronti. All’epoca infatti, a causa dei frequenti disordini di piazza che opponevano unionisti protestanti e repubblicani cattolici ai quali non di rado partecipavano anche, e in modo non imparziale grazie alla giustificazione del mantenimento dell’ordine pubblico che formalmente era a favore dei primi, i reparti antisommossa dell’esercito e della polizia, il parlamento nordirlandese aveva emanato un gran numero di leggi speciali tra le quali quella che prevedeva il cosiddetto internment, ovvero la facoltà per la polizia di mandare in prigione chiunque, senza un processo e per un periodo di tempo indefinito, potendo contare sulla sola approvazione del Ministro degli Interni dell’Irlanda del Nord. Nonostante la sua età, Sean era quindi uno dei tanti repubblicani cattolici nordirlandesi finiti in carcere senza avere alcuna prospettiva di essere rinviati a giudizio con un’esplicita imputazione oppure rilasciati. Era stato portato in tutta fretta nel piccolo carcere di Misery Parva, un antico monastero di monache benedettine trasformato prima in una grande fattoria per la coltivazione del luppolo e del malto d’orzo e poi, dopo l’acquisizione da parte dello stato, in riformatorio. Là, a differenza di quanto accadeva ai detenuti comuni, gli era stato vietato di ricevere visite, a eccezione di quelle del magistrato e dei poliziotti responsabili del suo arresto, mentre le periodiche comunicazioni di rito venivano trasmesse alla famiglia solo attraverso l’asettica e filtrata sinteticità dei canali ufficiali.
Così il mio amico era rimasto in prigione per diversi mesi, chiuso in isolamento in una di quelle celle dove secoli prima qualche monaca aveva pregato, finché un giorno i genitori avevano ricevuto uno scarno resoconto nel quale il direttore del riformatorio, allegando a riprova delle sue affermazioni alcuni certificati firmati dal medico responsabile dell’infermeria del carcere, li metteva al corrente dell’improvviso decesso del giovane detenuto. Secondo la versione ufficiale la morte era stata causata da una forma molto grave e fulminante di cancrena polmonare che il personale sanitario, pur avendo a disposizione attrezzature di primissimo livello in grado di fornire cure all’avanguardia, non era riuscito a bloccare.
I signori McNult avevano trovato il corpo di Sean già chiuso nella bara di zinco e subito dopo il rapido funerale avevano ingaggiato una lunga e dura lotta con l’autorità giudiziaria affinché fosse disposta la riesumazione del cadavere per l’autopsia. Com’era prevedibile, non avevano ottenuto alcuna concessione: all’inizio il giudice si era mostrato addirittura gentile, dichiarando loro che l’avrebbe fatto senza alcun indugio, a patto che ce ne fossero state le motivazioni; purtroppo, a suo dire, il referto del medico parlava chiaro e non dava adito a dubbi di alcun tipo. “Capirete”, aveva concluso appoggiando le parole sopra un interminabile sorriso mellifluo, “che starei fresco se dovessi disporre un’autopsia ogni volta che i parenti di un detenuto morto vengono a chiedermelo: da parte mia non sarebbe serio verso le istituzioni di questo paese e nei confronti del bilancio ministeriale.”
I signori McNult, però, non si erano dati per vinti ed erano tornati alla carica a più riprese, seguendo di volta in volta canali sempre diversi. Un giorno però avevano ricevuto una strana visita da parte di due sottufficiali della polizia penitenziaria, i quali, entrando appena dentro la casa e girando intorno alle parole il minimo indispensabile per non risultare esplicitamente intimidatori o addirittura minacciosi, avevano chiarito che fino a quel momento si era tollerata la loro insistenza per carità cristiana e umana comprensione; che d’altra parte avrebbero dovuto pensarci prima, quando erano ancora in tempo per dare un’educazione migliore al proprio figlio; e che, comunque, al punto in cui si era giunti, la questione sarebbe dovuta finire lì, una volta per tutte. Pochi giorni dopo, sulla tomba irlandese di Sean, proprio sotto il piccolo ovale del suo ritratto, era comparsa la scritta «’Twas harder still to bear the shame of foreign chains around us», e a me piace pensare – anche perché ne sono certo – che la calligrafia fosse quella di suo padre, il patriota orgoglioso del figlio, costretto ad arrendersi e a lasciarlo andare senza giustizia ma incapace di rinunciare a un ultimo gesto di fierezza prima di sottostare soltanto al dolore del lutto.
Per quanto mi riguardava, avevo mantenuto la promessa fatta al mio amico cercando in tutti i modi di frequentare Christa. Ne era venuto fuori un rapporto malamente platonico, innaturale e superfluo, fatto più che altro di lunghe passeggiate e di poche, inesorabili parole, spese soprattutto intorno ai tanti ricordi che entrambi avevamo di Sean, finché la natura era tornata a reclamare la sua parte inducendo Christa a decidere di punto in bianco di porre fine a uno stato vedovile che era andato fin troppo per le lunghe. Com’era prevedibile, aveva ripreso la vita di un tempo, lasciandosi corteggiare da tutti i ragazzi del quartiere e iniziando a declinare uno dopo l’altro i miei inviti, che ormai dovevano sembrarle solo sterili e uggiose anticaglie, un po’ come gli ultimi rametti ossuti di un albero già morto. Così, alla fine, persa ogni motivazione, mi ero arreso e l’avevo lasciata andare per la sua strada.
Molti anni dopo – con tutto il disinteresse possibile – avrei saputo che non si era mai sposata e che, mentre già sfiorivano gli ultimi petali della sua splendida giovinezza, aveva comunque avuto un figlio da un ex pugile greco, uno di quegli uomini in disarmo che le erano rimasti fedeli, e che l’aveva chiamato Sean.
Lo spirito del mio amico, però, doveva dirmi ancora l’ultima parola, la più importante di tutte, quella che avrebbe segnato il mio destino. Una sera, infatti, la signora Melissa aveva trovato un pacco sigillato con un grande foglio di carta bianca piuttosto spessa, sul quale Sean aveva scritto di suo pugno il mio nome; mi aveva quindi mandato a chiamare e, con la stanca gentilezza un po’ vacua che dalla morte del figlio l’accompagnava sempre, me l’aveva consegnato. Nel pacco Sean aveva messo la sua bellissima racchetta da tennis e un grande libro, pieno di fotografie e di illustrazioni, intitolato “Wimbledon”.
(estratto dal primo volume)
©Andrea Rossetti