A scuola, dove con grande sorpresa di entrambi ci eravamo ritrovati nella stessa classe, Sean passava quasi sempre la ricreazione per conto suo, assorto nella lettura di enigmatici volumetti che dall’aspetto mi ricordavano certi breviari dei presbiteri anglicani e dei preti cattolici oppure i vecchi libri di preghiere delle nonne; tutti con la rilegatura nera o comunque di colore scuro, il taglio rosso e senza un titolo stampato o impresso sulla copertina che desse un’idea del loro contenuto. Quando un giorno il preside, un uomo grasso, sudato e col respiro perennemente affannoso che sin dall’inizio aveva mostrato nei confronti di Sean un’ostilità nutrita nella stessa misura di antipatia e di diffidenza, l’aveva affrontato pretendendo di conoscere i contenuti di quelle letture tanto appassionate quanto misteriose, e quindi dal suo punto di vista sospette, il mio amico, stampandosi sulla faccia il più beffardo dei sorrisi, aveva confessato, con quel candore un po’ artificioso nella voce al quale ricorreva ogni volta che qualcuno esibiva la certezza di averlo messo in difficoltà, che si trattava di un libro di poesie di Robert Dwyer Joyce, intitolato “Ballads of Irish Chivalry“; poi, dopo una breve pausa durante la quale il sentimento di eccitazione per uno di quei precipizi vertiginosi e ineluttabili della vita temeraria che tanto lo esaltavano aveva rapidamente teso fino al punto di rottura i legami della sua volontà con le buone ragioni della prudenza, si era lasciato sfuggire una frase in gaelico: “Beidh ár lá linn…” Non potevano esserci dubbi sul fatto che volesse alludere al sogno patriottico di un’Irlanda unita e libera da ogni vincolo con la corona inglese ma, per non lasciare a metà la sua provocazione concedendosi (non mi è difficile immaginare con quale romantico ribrezzo) l’ombra vile di un possibile fraintendimento da parte del preside, l’aveva subito ripetuta in inglese, e a voce alta: “Noi avremo i nostri giorni!”
Quella bravata gli era costata una nota di demerito, un voto molto basso in condotta e le prime attenzioni, neppure troppo velate vista la storia della sua famiglia, da parte della polizia. Poi agli agenti ordinari erano subentrati alcuni uomini dal piglio militaresco ma senza divisa, sempre gli stessi, che di tanto in tanto lo prelevavano – ovviamente col benestare o addirittura alla presenza del preside – e si chiudevano insieme a lui in qualche aula vuota; cosa facessero, però, una volta lì dentro non si era mai saputo e Sean, d’altra parte, parlando con me aveva sempre evitato di toccare l’argomento. Ricordo benissimo che erano comandati da un uomo che mi faceva una gran paura: anche lui vestiva in borghese come gli altri, ma in modo più sportivo, e il taglio delle sue camicie era del tipo detto ‘alla Robespierre’; sui suoi capelli – nerissimi – spiccava una ciocca candida che sembrava la manifestazione esteriore di un’anomalia del sistema nervoso, soprattutto quando scivolava ciondolando proprio al centro della fronte, a sua volta bassa e larga; aveva il grugno suino e una bocca lasciva, carnosa, stampata senza grazia sul volto floscio e olivastro; lo sguardo tradiva di continuo una sorta di tensione collerica e mentre parlava, anche in situazioni normali, aveva l’abitudine di stringere costantemente i pugni; il viso era intimidatorio, asimmetrico, mentre gli occhi callosi, piccoli, accartocciati, il mento prominente e le mascelle ridondanti conferivano al suo aspetto qualcosa di minacciosamente lombrosiano che io, benché al contrario del mio amico mi sentissi al sicuro e del tutto invisibile ai suoi occhi in quanto adagiato su un solido sentimento di assoluta irrilevanza, non riuscivo a spiare senza provare un brivido d’inquietudine misto forse alla vaga ammirazione tipica del suddito consapevole.
Sean era uno di quei tipi che per indole sorridono spesso e ridono di rado. Le volte in cui gli accadeva di ridere, però, e quando quegli uomini venivano a scuola a fargli visita gli succedeva sempre, nulla, nemmeno l’ira del preside e dei professori, riusciva a trattenerlo: pareva che improvvisamente lui e l’ilarità più assoluta si riconoscessero come dei vecchi amici, amici d’infanzia, quelli che poi un giorno s’innamorano della stessa ragazza, litigano di brutto e si perdono di vista per sempre.
Dopo quella lunga serie di preliminari più o meno impacciati, o dovrei meglio dire trattenuti al di qua di un’ostinata negligenza dall’entusiasmo scettico e mai davvero pieno di entrambi, la nostra amicizia aveva finalmente spiccato il volo verso la qualità superiore e sicura dell’affetto tra sodali nel momento in cui, a causa di uno di quegli strani e del tutto imprevedibili intrecci tra il gusto del pettegolezzo, le dinamiche delle relazioni sociali, la naturale propensione psicologica degli esseri umani alla manipolazione creativa della realtà dei fatti al fine di addomesticare alla meglio la noia e la pena provocate dal loro ordinario grigiore, e infine il necessario sentimento di credulità senza il quale nessun popolo è in grado per davvero di diventare una folla, a scuola aveva cominciato a girare una strana versione della storia della morte di mio padre che, smentendo sia quella pubblica e asettica del suicidio che l’altra, più pietosa e familiare, dello sfortunato incidente, parlava invece del tragico epilogo del suo tentativo di salvare qualcuno che stava affogando.
Non mancava addirittura chi giurava di avere un amico o un parente che affermava di conoscere di persona l’uomo salvato da mio padre a costo della sua vita.
Sebbene io – ben sapendo come erano andate veramente le cose e avendo sentore del fatto che se la leggenda condivide la medesima natura della calunnia tale prossimità non può non riguardare anche gli aspetti sinistri e insidiosi di quest’ultima – facessi attenzione a non toccare mai l’argomento per una sorta di pudore ispirato in egual misura dall’amor proprio e dalla diffidenza, la versione eroica della scomparsa di mio padre si era affermata con una certa facilità tra i miei compagni di scuola che, forse a motivo dell’età, erano ancora propensi a considerare la vita umana una successione di eventi avventurosi ed eccezionali.
Comunque fosse andata, la cosa aveva colpito molto Sean, che infatti da un certo momento in avanti aveva cercato la mia compagnia con una costanza inusuale e soprattutto priva di quella impalpabile superficialità che fin dall’inizio non era mai venuta meno nei nostri rapporti. In breve tempo eravamo diventati inseparabili e io, non avendo più dei genitori ai quali dover rendere conto dei miei orari e potendo fare affidamento sulla permissiva disattenzione dei miei zii per tutto ciò che aveva attinenza col mio quotidiano, avevo cominciato a trascorrere parecchio tempo in casa McNult, come amico di Sean e per nutrire almeno di qualche sguardo il mio amore infelice per la signora Melissa.
Quando poi la confidenza tra di noi, insieme all’apice un po’ frenetico del reciproco attaccamento che ci induceva a desiderare occasioni di complicità sempre più frequenti e a ricercarle poi con un entusiasmo quasi voluttuoso, aveva raggiunto la fase tipica in cui ogni confessione diventa intimamente possibile, Sean, sicuro ormai che io fossi colui che il destino gli aveva messo accanto come amico del cuore, mi aveva rivelato di essere sul punto di compiere prima un gesto molto importante e poi una scelta irreversibile; quindi, indifferente alle molte manifestazioni esteriori della golosa curiosità che le sue parole avevano subito attizzato dentro di me ma pure senza dare alcun peso – anzi tacitamente perdonandomene la debolezza – all’infantilismo di quella mia reazione istintiva, si era dilungato con calma a raccontare la storia di Gaetano Bresci, l’uomo che a Monza, nel 1900, aveva sparato al re d’Italia, uccidendolo. A un certo punto, però, si era interrotto e, con un’espressione vagamente felina, arrotata dal filo mobile dell’orizzonte di una lontananza sinistra, disegnata sulla sua faccia da un’ombra tenera e mobile, prossima a suo modo alla vibrazione sonora prodotta da un segreto fondamentale quando viene sussurrato all’orecchio, mi aveva chiesto se prima di allora avessi sentito parlare – chissà, magari da mio padre! – di quell’anarchico tanto famoso. Io, dopo essere rimasto in silenzio per qualche secondo, tentato sulle prime dall’idea di salvare la faccia con una bugia (che quella mia incertezza iniziale avrebbe in ogni caso reso poco credibile e forse addirittura ridicola), mi ero infine risolto a dargli prova della mia assoluta lealtà nei suoi confronti confessandogli la mia ignoranza con un deciso cenno negativo della testa. A dispetto della mia schiettezza, però, sul viso di Sean era apparsa comunque per un istante, trasmessa meccanicamente alle sue labbra dal tremore impulsivo di un senso morale intransigente, una fugace smorfia di disapprovazione che, se non altro alleviando in fretta il mio conseguente imbarazzo, aveva lasciato spazio quasi subito al composto recupero di un sorriso amichevole, benché non del tutto privo di un alone manifesto di paternalistico compatimento.
La conclusione del suo racconto della vicenda dell’anarchico Bresci era stata poi tanto concisa quanto esauriente, come una necessaria seccatura, giacché il nocciolo della questione, ovvero ciò che davvero gli stava a cuore fin dall’inizio, era ancora ben lontano dal venire a galla proprio a causa della mia ignoranza. Dopo una pausa di silenzio che mi era sembrata lunghissima e che lui mi aveva servito nel calice cristallino di un imbarazzo mitigato dalla comparsa sulle sue labbra di un sorriso se non altro finalmente privo di sottintesi e addirittura quasi serafico, Sean si era deciso ad arrivare al dunque facendo il nome di Christa, la giovane figlia dei suoi vicini di casa che per puro caso, nel giorno della nostra prima visita al campo da tennis del fioraio Koch, ero stato proprio io a fargli incontrare. Da un po’ tutti noi ragazzini del quartiere non potevamo fare a meno di guardarla con ammirazione per via di quei capelli lisci e lunghi che le ondeggiavano sulle spalle con incantevole morbidezza ma soprattutto a causa della precoce e generosa maturazione del suo corpo sbocciato al sopraggiungere di una pubertà tanto sorprendente quanto, all’ombra del desiderio silenzioso col quale i nostri pensieri la circondavano, seduttiva.
(estratto dal primo volume)
©Andrea Rossetti