L’UOMO DISINCANTATO – Io e Sean (6)

Vedendomi venire avanti con un passo e una postura che, sforzandosi di nasconderla, tradivano invece in pieno tutta la mia ansia, il fioraio, rispolverando un’abitudine che aveva preso tempo addietro, quando cioè da lontano si accorgeva che io, malgrado simulassi noncuranza e disattenzione ricorrendo a una fitta trama di atteggiamenti e di movenze evidentemente infantili e senza senso, lo stavo spiando di nascosto mentre lavorava alla creazione del suo campo da tennis, aveva lasciato galleggiare sopra la sua faccia, fluttuante tra i folti baffi scuri e la mosca, una specie di prolungato risolino impersonale, da veggente in estasi, privo nel contempo di indizi sicuri di bontà e di cattiveria, di avversione e di benevolenza, nel quale però, se fossi stato più pronto, avrei potuto intravedere come in un lampo la consapevolezza visionaria della mia predestinazione. Per via delle braccia che, nonostante la marziale geometria della sua costituzione, erano leggermente troppo lunghe rispetto al corpo, Koch indossava una giacca grigia di velluto a coste un po’ più ampia rispetto alla sua taglia, una camicia bianca di cotone grezzo coi polsini slacciati e dei pantaloni alla zuava di lana battuta color felce appena avvolti sopra spessi calzettoni da montanaro; ai piedi calzava dei vecchi scarponi da giardiniere, coi lacci annodati alla meno peggio, che squittivano a ogni passo, dando l’impressione che il pavimento intorno a loro fosse sempre infestato da una vivace colonia di topi invisibili.
Sentivo bene schioccare al vento, che da qualche minuto si era messo a soffiare più forte solfeggiando a folate con una cadenza da tempo composto – una frazione in battere e due in levare -, la bandiera della Svizzera, alta sul pennone di legno issato dal fioraio di fronte alla sua bottega e agganciata a una cordicella d’acciaio che vibrava sibilando nell’aria come uno scudiscio. A onor del vero quella grande croce bianca su fondo rosso mi aveva sempre fatto pensare all’insegna di un pronto soccorso al contrario; a un luogo, cioè, dove medici sadici e infermieri pervertiti si divertivano ad aggravare le malattie dei pazienti invece di curarle. Ed era stata appunto la comicità nera predominante in quella visione – così ricca di buoni spunti per uno strano e forse anche geniale film dell’orrore – che, facendo leva sulla particolare condizione sentimentale nella quale mi trovavo, prima in balia di un turbamento affannoso e poi del senso di compressione sul torace tipico della fame d’aria che caratterizzava da sempre le mie periodiche crisi d’asma psicosomatica, si era fusa tutt’a un tratto in una mescolanza di sollecitazioni insieme alle forti risonanze emotive che nel frattempo stavano suscitando dentro di me il rumore eroico e disperato di quel pezzo di stoffa colorata, proteso in alto a garrire con feroce violenza e nel quale mi pareva che una nazione intera fosse investita dalla furia senza freno di raffiche nemiche, e quindi agli spostamenti d’aria, che dal canto loro mi inducevano a fantasticare, per una sorta di sobbalzo istintivo e quindi assolutamente disordinato del pensiero, intorno a remote esplosioni di ordigni lanciati a pioggia da stormi enigmatici di bombardieri senza patria.
Quest’animato miscuglio, favorito anche dalle caratteristiche inusuali del paesaggio circostante, che fondeva pur sempre un luogo di rovine di guerra solo in parte riadattate alla buona – cioè il cavedio delle botteghe artigiane – e uno che conservava invece la memoria di un rudere del dopoguerra – il vecchio “Cine Moon” – prima crollato e poi in gran segreto completamente trasformato e avviato alla sua nuova vita abusiva (e perciò fatta per rimanere in sospeso e priva di garanzie temporali), aveva trovato il suo approdo naturale nel riemergere dalla mia memoria di un avvenimento, legato sempre al fioraio svizzero; un evento che avevo rimosso e dal quale, nel momento in cui l’avevo vissuto, mi ero allontanato con una fuga precipitosa piena di straziante e inorridita delusione.
Il fatto era avvenuto un po’ di tempo prima, quando il signor Koch era ancora alle prese con la semina dell’agrostide palustre. Eravamo nel tardo pomeriggio e la luce del sole, appena al di sotto di un cielo opaco per via della consistenza improvvisamente materica, polverosa, dei suoi colori, si era concentrata dentro un ritaglio luminescente, sospeso tra il bianco e il pervinca, che fluttuava in orizzontale mentre si riverberava anche verso l’alto, schiacciato lungo il filo dei contorni delle cose, inabissandosi infine nella vuota profondità degli spazi, degli angoli sparsi e dei recessi per penetrarli con ipnotiche contrazioni sino a comporre una galassia terrestre di bagliori pulsanti.
Il fioraio era disteso a terra, come una recluta durante un’esercitazione o una sentinella protetta da una barricata, nascosto in parte da una carriola da giardinaggio con il cassone in legno posta vicino a un mucchio di sacchetti di sementi: per me era stato fin troppo facile indovinare che stava spiando le mosse di un gruppo di colombi. Questi, mentre arruffavano di tanto in tanto le piume dando quasi l’impressione di seguire coi movimenti il ritmo delle intermittenze dei barbagli di luce dietro di loro, tubavano in modo stranamente chiassoso per via dell’amplificazione naturale dovuta all’improvviso addensarsi sulla scena di un silenzio pressoché assoluto, e andavano avanti e indietro sul bordo di una tettoia di plastica gialla ondulata e sbilenca nell’attesa sempre più frenetica di qualcosa che evidentemente si erano abituati a dare per scontato. A un certo punto, infatti, al di qua della recinzione e non molto distante da me, era apparsa una donna, che a dire il vero se ne stava sullo sfondo già da un po’ ma che sino a quel momento era rimasta in qualche modo assorbita dal primo, composto rossore del tramonto, come se fosse un’efflorescenza porosa e meno vivida nel complesso di una grande ramificazione corallina che anche la mutata tensione dell’aria, fattasi nel frattempo più liquida e oscura, contribuiva a sminuire. La presenza di quella figura femminile, per diverso tempo rivelata al mio sguardo quasi esclusivamente dalla limpida mobilità dei suoi occhi, era quindi emersa dal resto del mondo a partire da un gesto del braccio che ella aveva scrollato e quindi mosso con grazia deliziosa verso l’alto, come quelle donne che negli antichi filmati di guerra salutano i treni dei soldati destinati al fronte sventolando fazzoletti e bandierine senza tradire la benché minima angoscia ma anzi con la stessa festosa allegria che avrebbero avuto se invece si fosse trattato di salutare una scolaresca in partenza per l’annuale gita di classe. Grazie allo slancio impresso a tutto il suo corpo dalla brusca evidenza di quel braccio venuto allo scoperto, fuori dal viluppo vaporoso che, simile a una medusa semitrasparente, l’aveva assorbito fino ad allora, ogni altro aspetto di lei era improvvisamente tornato ad avere una fisionomia, recuperando il riferimento di un nome e l’abitudine a una forma mentre, così ricomposta, la sua figura intera si andava prolungando nell’aria in una fitta scia caduca di briciole, semi e molliche di pane che, esaurita la spinta del movimento liberata dall’apertura repentina della mano, si era infine disfatta a terra, in mezzo al campo fresco di semina.
Quasi trascinati da quel gesto, al quale, per una sorta di adattamento evolutivo della specie alla comodità cittadina dei pasti abbondanti messi a disposizione dagli slanci animalisti del buon cuore degli uomini e soprattutto dalla loro immondizia, essi associavano ormai meccanicamente un’aspettativa ben precisa, vale a dire quella del cibo, tutti i colombi si erano levati in volo seguendo per linee a poco a poco sempre meno parallele una sola, vera traiettoria di picchiata, rapidamente discesa quasi rasoterra prima di scomporsi, al momento dell’atterraggio, in un caotico can-can di colli dondolanti, brusche frenate e giravolte pennute. Al termine del percorso lungo il quale, nel modo più breve e rettilineo possibile, si erano spostati dal luogo del loro appostamento, che avevano lasciato tutti insieme nel medesimo istante scuotendo all’unisono l’aria con un frullo febbrile, fino al banchetto rovinato in modo tanto brutale sopra la semina appassionata e scrupolosa del signor Koch, quegli uccelli, senza smettere per un momento di grugare, avevano cominciato a ingozzarsi di tutto ciò che intorno a loro fosse minimamente commestibile con una sfacciataggine tale da renderne la scontata inconsapevolezza più un’aggravante che una giustificazione. La donna, dall’altra parte della recinzione, li guardava compiaciuta con una premura quasi maniacale scolpita sull’espressione del viso, quando all’improvviso la morbida densità del verso dei colombi intenti a rimpinzarsi freneticamente era stata interrotta da una successione di rumori che, facendo riaffiorare il ricordo, messo da parte in qualche angolo meno frequentato della mia memoria, di uno di quei Luna Park itineranti nei quali da sempre mi piaceva avventurarmi a curiosare anche in mancanza di soldi da spendere, mi aveva restituito l’immagine nitida del banco del tiro a segno dove, tra assordanti carillon, strepiti, voci e suoni di campanaccio, riusciva comunque a emergere imperioso il susseguirsi sordo dei colpi delle carabine.
Era accaduto in sostanza che il fioraio, esasperato dallo scempio quotidiano di quel saccheggio e deciso a difendere a tutti i costi l’erba nascente del suo campo da tennis senza fare ricorso a manifestazioni d’ira destinate di sicuro a non avere alcun effetto sia sulle abitudini degli uccelli che sulla cocciutaggine di chi sistematicamente li rimpinzava, aveva rotto gli indugi e si era messo a sparare contro i colombi con tutta la metodica freddezza di chi compie un gesto a lungo premeditato, utilizzando un fucile ad aria compressa caricato con pallini calibro 4,5 millimetri. Gli uccelli, giacché quell’arma non produceva dei veri e propri scoppi che altrimenti, spaventandoli, li avrebbero indotti a volare via in fretta e furia, si erano limitati a girandolare un po’ più velocemente di prima e a tubare con maggiore energia, senza comunque smettere mai d’inghiottire briciole e semi, anche quando uno di loro, colpito in pieno dal primo pallino sparato da Koch, avendo fatto una specie di piroetta, si era accasciato sul suo stesso pasto con un singulto. Il secondo colpo, polverizzando anche un ciuffo di piume che si era dissolto nell’aria come una nuvola di cipria, aveva fracassato l’ala destra di un altro colombo; questo, a differenza del precedente, che era stato preso alla sprovvista da una morte repentina, era invece riuscito a trasmettere a tutti gli altri una sia pur vaga inquietudine – ben visibile nel ritmo del loro incedere divenuto d’un tratto più rapido e spezzato, quasi a scatti – almeno finché, dopo aver traballato per un po’ lungo una traiettoria circolare disegnata in terra dall’ala ferita, completamente distesa e ormai incapace di flettersi, si era accovacciato ansimante col becco semiaperto e gli occhi che, visti dal mio punto di osservazione, sembravano dilatati in modo penoso dal dolore e dallo spavento. C’erano voluti altri tre colpi, sparati dal fioraio con incredibile rapidità e con una precisione tale da lasciare a terra altrettanti colombi agonizzanti, prima che la donna, sino ad allora rimasta interdetta e priva di spiegazioni di fronte a quanto stava succedendo, giungesse a realizzare che proprio sotto i suoi occhi qualcuno aveva appena ucciso o ferito in modo gravissimo cinque degli uccelli ai quali dava da mangiare ogni giorno. Allora il suo urlo di disperato ribrezzo per quella strage, seguito immediatamente da una serie di insulti e anatemi di sbalorditiva trivialità scagliati contro Koch con voce chioccia, aveva finalmente avuto la meglio sull’ingordigia suicida dei colombi che, risucchiati da un intenso frastuono dentro un vortice morbido d’aria e di piume, erano volati via come un grande flabello papale agitato sulla prospettiva mobile dell’orizzonte.
Sulla scena, però, non era ancora calato un completo silenzio: accanto al compagno morto, infatti, i quattro colombi feriti emettevano dei versi che nulla avevano più della pienezza gutturale di un tempo e davano invece la sensazione assoluta e spaventosa di un ripiegamento intimo, privo ormai di collusioni col mondo circostante. Quei suoni esprimevano l’andare in pezzi della vita e il suo estremo occultamento nella natura, anzi si potrebbe dire che, nel gorgoglio dell’immersione notturna del loro canto, essi ne fossero addirittura la voce. Gli uccelli, a terra agonizzanti, stavano dando un suono alla perdita di loro stessi, qualcosa che in un certo senso era uno sforzo doloroso di memoria chiuso all’interno dell’esperienza naturale della morte, e che, sollevandosi sino a farsi grido, passava infine il testimone all’intera specie e si fermava, deflagrando in un lampo di coscienza primordiale, un solo istante prima della parola.
Poi il signor Koch era uscito dal suo nascondiglio brandendo una grossa zappa nella mano sinistra: l’avevo visto avvicinarsi ai colombi con un passo rabbioso e marziale, più rapido di quello che aveva di solito, senza smettere mai di sostenere ghignando lo sguardo atterrito e furente della donna. Erano bastati quattro colpi di zappa assestati impietosamente, ciascuno accompagnato da un urlo brutale di liberazione, a uccidere gli uccelli feriti e a far ripiombare ogni cosa in uno stato, sia pure ancora tremulo e terribile, di quiete.

(estratto dal primo volume)

©Andrea Rossetti

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

error: All rights reserved (c) massimocasa.it